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La festa dei morti a Toro (quando Halloween ancora non si sapeva cos'era) |
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Prima che Halloween s'imponesse su tutto, la festa dei morti era particolarmente sentita anche da noi ragazzi del tempo. Il primo e il due novembre tornavamo ad assistere a vecchi rituali e a sentire risuonare antiche leggende dei morti che rientravano non visti nelle loro (e nostre) case, in funzione di numi tutelari dei figli e dei nipoti.
Ingresso del Camposanto di Toro. Lapide dettata e fatta incidere dal dott, Nicola Petrucci
La fèsta de li Sante vènga vènga,
la Pasqua Epifanie nun vènga mai.
La festa di Ognissanti (1 novembre) venga venga,
Pasqua Epifania (6 gennaio) non venga mai.
Sono i morti ad augurarselo, i morti
che con la Festa dei Santi “si mettono in festa”.
Tornano non visti nelle loro case (le nostre)
e, secondo la credenza,
si danno al bel tempo fino all’Epifania.
Sogni ingenui di una vita tra eguali si affacciavano alla mente il primo novembre. A suggerirli i gesti tranquilli e solenni dei contadini che svuotavano il secchio di grano per le anime del purgatorio. Nel mucchio che si spandeva sul pavimento in penombra del cappellone di San Nicola, c’era la promessa di una impilata di pagnotte fumanti per il mistico banchetto dei morti e dei vivi.
"La comunione dei santi!" – spiegava don Camillo, intabarrato nel piviale nero che ci terrorizzava, non meno del dies illa dies irae intonato dalle bizzoche.
Tornavano ad echeggiare nella mente i racconti degli adulti circa la strana esperienza che ci era occorso di vivere a nostra insaputa durante la notte tra il primo e il due novembre, quando baciavamo in sonno il pavimento mentre in strada passava la processione dei morti che si recavano in chiesa per la messa a loro dedicata. Guai a chi pretendeva di restare sveglio per vederli passare in corteo: in un attimo sarebbe stato accolto anche lui nel numero dei trapassati. Raccapricciante, tra le altre, la sorte di quella popolana, capitata ad assistere alle messa dei morti, chissà come, chissà perché. Stanca di una giornata lunga e faticosa, si appisolò proprio all'Orate frates , ovvero nel momento utile per lasciare la chiesa e non rimanervi imprigionata. Il celebrante pietoso se ne accorse e ripeté una seconda, una terza volta l'esortazione, a voce sempre più alta "Orate frates. Orate frates". Finalmente la poveretta si scosse è corse alla porta giusto in tempo per mettersi in salvo. Ma dovette maledire l'ampia gonnella in uso a quei tempi, con la quale rimase incastrata alla porta. E rassegnarsi a passare in piedi la lungo notte nella chiesa tornata buia e deserta.
Super eccitati da questi racconti, trovavano particolarmente insopportabile lo sfolgorio dei lumini sul pavimento delle cappelle gentilizie, sfrigolanti tutto attorno alla grata di ferro nerofumo che chiudeva il sottostante, macabro giardinetto di scolo, mentre fuori, nel camposanto, sui tumuli della povera gente, un mezzo lumino dalla crespa carta rossa ardeva a malapena, al riparo di quattro mattonacci coperti da un pincio. Il riflesso della fiammella si stampava sulla croce di legno con il nome del defunto, ma almeno per qualche ora quella minuscola cripta di argilla cotta si faceva beffe del vento e della pioggerella di novembre.
C’erano, infine, i morti dimenticati da Dio e dagli uomini. Una croce e niente altro. E a quelli pensavamo noi ragazzi, che rubavamo i lumini di troppo delle cappelle, e li riaccendevamo sui tumuli più desolati, mentre il cuore ci ballava nel petto, e le fiammelle si facevano via via più vivide nelle casette approntate per le anime di quei nostri improvvisati lontani parenti d’elezione.
Con il calar della sera, lo struggimento per la sorte ineguale dei morti e la stanchezza inducevano ad azioni sconsiderate. Da dietro un cumulo di pietrisco, o dietro la fratta di recinzione, lanciavamo ghiaia e urli di civette e di allocchi per spaventare i tardivi visitatori del camposanto, ormai immerso nel buio. Finché Raffaele, il carabiniere, non metteva mano al cinturone ed esclamava a gran voce: – Qui ci vorrebbe un colpo di pistola!
Morti di paura, allora, ci rotolavamo giù fino alle prime case del paese, dove il lumino continuava ad ardere nella zucca vuota, antesignana ante litteram dei rituali di Halloween che sarebbero dilagati nei decenni successivi.
Poggiato sulla croce viaria edificata ai piedi della salita del convento, quel rubicondo teschio in effige era l’ultimo sussulto d’angoscia prima del rientro a casa, dove finalmente tornavamo a respirare a pieni polmoni nelle volute di fumo del camino acceso.
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Postato il Giovedì, 31 ottobre 2019 @ 19:10:13 di giovanni_mascia |
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