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Mio padre al cantiere della ditta Zaccherini (Toro che non c'è piu)
Pubblichiamo volentieri un racconto di Vincenzo Colledanchise, corredato con un paio di foto, sui lavori di costruzione della Fondovalle Tappino. Siamo a circa mezzo secolo fa: altro mondo e altri uomini.

Eravamo alla fine degli anni cinquanta. Lungo il fiume Tappino si stava realizzando, con le risorse della Cassa del Mezzogiorno, la strada che ci avrebbe collegati celermente con la Puglia, sfruttando in gran parte l’area del tratturo, che proprio in quegli anni vedeva terminata, dopo secoli, la sua funzione di via delle greggi in transumanza tra l’Abruzzo e le Puglie.

Mio padre, come altre decine di uomini del paese, fu assunto dalla Ditta Zaccherini, che aveva avuto in appalto la costruzione dell’opera, consentendo di arrestare l’emorragia di uomini verso l’estero, per l’endemica emigrazione cui erano soggetti.

A causa delle precarie condizioni di salute, mio padre non venne assunto come semplice manovale, bensì come ingrassatore e rifornitore alle ruspe, di conseguenza egli si rapportava continuamente coi ruspisti che provenivano quasi tutti da San Benedetto del Tronto.

Avevo meno di dieci anni e potei godere anch’io della amicizia di quei simpatici giovanotti. Si lavorava pure la domenica fino a mezzogiorno, ed io avevo l’incarico di raggiungere mio padre col mulo, presso il cantiere a ridosso del fiume, con la vettura l’avrei riportato in paese per l’irta salita, fino alle Pagliarole , dove avremmo attinto il foraggio per gli altri animali domestici che avevamo nella stalla sotto casa.



Guido, il ruspista più simpatico, mi consentiva di salire sulla ruspa ed osservare la potenza della macchina che buttava via tutto, alberi, terra e manufatti. Fu proprio alla fine della via Vicenna che un giorno quella ruspa scovò sotto terra alcuni loculi in pietra al cui interno vi erano scheletri umani.

Quando il cantiere avanzò, allontanandosi dal paese, papà fu costretto a soggiornare insieme ai ruspisti presso la loro baracca, posta in un’area nella risacca del fiume. Una sera la baracca fu inondata dal fiume in piena e papà, impaurito, tornò precipitosamente a casa, servendosi dei lampi dei fulmini per riconoscere la direzione della strada che portava in paese. Dalla baracca salvò un rudimentale grammofono a manovella, che ci parve regalo opportuno per i nostri giochi, più che per sentire i dischi a 78 giri che rallegravano la mamma, grazie alle puntine che compravamo presso il tabaccaio.

Per poter continuare a lavorare, mio padre fu costretto a munirsi di una motocicletta leggera, un Galletto 50, col quale raggiungeva il cantiere, sempre più lontano.

Il cantiere era trafficato da grossi autocarri che trasportavano ghiaia, con la quale facevano la massicciata della strada. Inorridii, un giorno, nell'osservare un uomo su una motocicletta, completamente imbiancato, ricoperto letteralmente di polvere, della polvere che veniva sollevata dai grossi mezzi. Quando riconobbi che era mio padre, mi venne un groppo alla gola.



In seguito, quando il cantiere ebbe fine, con i miei fratelli, disintegrammo sia il motociclo che il grammofono per giocarci. Col primo fingevamo di ripararlo, imitando i meccanici, smontandone tutti i pezzi, col secondo lo usavamo come giostra, salendo sull’ampio portadischi, che facevamo girare con una semplice manovella.
Dell’amicizia con Guido, è rimasto il rimpianto di non poter essere cresimato da lui, come mi aveva promesso, ma ho la consolazione di sentirlo qualche volta a telefono.

Vincenzo Colledanchise
Postato il Giovedì, 09 settembre 2010 @ 11:56:21 di giovanni_mascia
 
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