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La casa della Paura (Toro che non c’è più)
Paura con la lettera maiuscola, perché la Paura di cui parlo non è la fifa, la tremarella o come la chiamiamo noi, la cacaccia, per le conseguenze non volute che sporcano le brache di chi ne soffre, ma il fantasma, l’ombra, l’apparizione, insomma la Paura che incute paura, se non terrore vero e proprio. Perché a Toro, per dire che questa o quella casa è abitata dai fantasmi, si dice che Ci arresce la Paura!



Trovò tutto quello che si trova in tutte le soffitte. Polvere e ragnatele.
E schifezze di zoccole e di uccelli. E vecchi arnesi...

Sì, lo so che molti non ci credono. E so pure le loro accuse alla ignoranza e alla superstizione dei tempi passati, e al buio di quando non c'era ancora la luce elettrica e ogni rumore poteva trasformarsi in qualcosa di misterioso. So pure le loro risate, quando scoprono che molte volte la realtà era molto più banale di come si temeva.

Per esempio, so bene che di una di queste case discorre Nicoletta Pietravalle in Cara Italia, tuo Molise (1983), quando scrive che “un’eccitazione culturale” l’aveva “spinta in Rua della Scimmia a visitare la casa dei fantasmi con la sua storia confusa e tenebrosa”. E so bene, anzi benissimo, che la Pietravalle si sofferma proprio su "un lato umoristico, testimoniato da un torese che abita sotto la casa dei fantasmi", Il quale, dopo aver confessato "concitatamente in dialetto stretto " Io ho paura della paura", ha offerto la divertente spiegazione di un evento che non ha niente a che vedere con i temuti fantasma, raccontando "di una notte in cui, dopo ore di sordo rintocco sopra la testa, decise di mandare in ispezione la moglie: erano le lumache, messe a spurgare in un caldaio chiuso e pieno di granone, che strisciavano fino all’orlo e… ricadevano giù”.

Tutto ciò è vero: molto spesso le cose sono andate proprio così. Non sempre però. E meno ancora, come vedrerte, nel caso che sto per raccontarvi. Lasciamo perdere perciò i lati umoristici della casa della viarella della Scimmia e andiamo dicendo.

Che "ci arriscisse la Paura si diceva anche di un'altra casa di Toro. Precisamente in quella un tempo abitata da don Pippo il notaio e dalla moglie, e dopo di loro dall’arciprete don Annibale Tacchini, meglio conosciuto e ricordato dagli anziani di Toro come l’accipreuto da Ripe, perché originario non ricordo più se di Ripalimosani o Ripabottoni. Qualcosa di vero doveva esserci perché, una volta che don Pippo era partito per l’esilio decretatogli da Mussolini, donna Checchina non se l’era sentita di continuare a vivere da sola in quel palazzone e se ne era andata ad abitare davanti alla chiesa in casa della figlioccia Maria.



E l'arciprete gli parlò chiaro:
- Caro compare, qualcosa ci deve essere. Ogni anno dico una messa per quell’anima.


Qualcosa doveva esserci, perché dopo che don Annibale aveva manifestato il proposito di tornarsene a passare la vecchiaia nel paese d’origine, donna Checchina non ci aveva pensato due volte e quella casa l’aveva messa in vendita. Tanto più che di don Pippo non arrivava più nessuna notizia, né che lo dicesse vivo né che lo dicesse morto, nonostante che il fascismo fosse caduto, e la seconda guerra mondiale finita da tempo.

La casa era grossa, ben fatta. Il prezzo non impossibile. Cosicché zi Natale u trappitaro ci aveva fatto più di un pensiero. Di soldi ne aveva fatto a palate con il trappeto, anzi un pozzo pieno, a stare a sentire i compaesani. Gli anni erano quelli che erano e si sentivano sulle spalle.. La moglie lo aveva appena lasciato vedovo. Ora o mai più. Una casa da galantuomini per il figlio, la nuora e i nipoti che sarebbero arrivati: era questo il regalo che intendeva fare a loro ma prima di tutti a se stesso dopo una vita di lavoro, passata a combattere con i cafoni.

Una sera si decise e andò a picchiare alla porta dell’arciprete.
- Cumpà, voi mi dovete parlare chiaro!
E don Annibale gli parlò chiaro: - Caro compare, qualcosa ci deve essere. Ogni anno dico una messa per quell’anima del purgatorio.
Qualcosa o non qualcosa, Zi Natale alla fine si decise e comprò la casa di don Pippo il notaio. Vi andò ad abitare e della Paura non se ne parlò più.



La notte in cui guardammo mammarella Rachele.


Se ne tornò a parlare cinque o sei anni dopo, la notte in cui guardammo mammarella Rachele. Quella notte insieme a noi, c’erano Giovanni Carbone e la moglie, c’era zi Natuccia, c’era tutto il vicinato. Nonostante mammarella avesse passato placidamente il suo secolo di vita, a me che sera dopo sera mi era ritirata nella sua casetta di via del Trappeto a dividere con lei il letto e a sentirle raccontare del Borbone e di Garibaldi, del brigante Caruso e di Filomena Ciccaglione che lo aveva tradito, dispiaceva assai vederla morta, distesa sulla tavola della cucina, ma i parenti meno stretti e i vicini di casa non erano granché addolorati e perciò tranquilli si preparavano a passare la nottata discorrendo del più e del meno.

Non ricordo chi fu a portare il discorso sulle vecchie chiacchiere della Paura che ci arrisciva in casa del notaio, da anni ormai diventata casa del trappitaro e a chiedere quanto ci fosse stato di vero in esse. Forse furono Giovanni Carbone e la moglie che, arricchitisi con il comprare e vendere ciucci e muli per le fiere, un po’ di gelosia avrebbero potuto provarla per gli eredi dell’ormai defunto Zi Natale, loro che di eredi purtroppo non ne avevano avuti e almeno una casa da signori se la sarebbero potuto e dovuto comprare. Fatto sta che la comare Pinuccia non se lo fece chiedere due volte e disse che sì, le chiacchiere non erano chiacchiere.

Ricordavamo tutti che Zi Natale aveva vissuto nella nuova casa gli ultimi mesi della sua vita e li aveva vissuti senza più quella lucidità di mente e quella gagliardia di corpo che aveva contraddistinto la sua esistenza. Passava le sue giornate seduto sulla sedia, dietro i vetri della loggia a spiare il cielo e i muri delle case dirimpetto. Il figlio se ne scendeva giù nel trappeto, la nuora con la creatura piccola e la pancia grossa per la seconda in arrivo doveva assentarsi spesso e volentieri. Così il vecchio si lagnava, quando la vedeva tornare.
- Ta’, non vi sentite bene?
- Rumori a non finire! Passi di gente che sale e scende le scale, porte che si aprono e chiudono, finestre che sbattono…
- Ma no, ta’… Voi magari vi siete impressionato. Sarà stato il vento. Lo sentite oggi il vento che tira, lo sentite?

Aveva ragione il suocero. La comare Pinuccia si dava animo. Come si dava animo il marito, ma i rumori li sentivano anche loro, di giorno e di notte. E continuarono a sentirli anche dopo che la donna, un giorno, aveva deciso di arrampicarsi sullo spingo per vedere che cosa vi fosse. Possibile, si era detto. È più di un anno che stiamo in questa casa e non devo sapere che cosa ci sta?

Là sopra trovò tutto quello che si trova in tutte le soffitte di questo mondo. Polvere e ragnatele.. E schifezze lasciate da zoccole e uccelli. E vecchi arnesi, cianfrusaglie, bottiglie e bottiglioni, tavole e tavelloni, ferri vecchi, scatole, valigie sfondate… E anche un libro. Un libro che attirò la sua attenzione perché aveva la copertina nera e il bordo colorato di rosso. Proprio come quello delle Massime eterne di Sant’Alfonso de’ Liguori che aveva sul comodino e, come quello, lucido, e senza un granello di polvere. Strano, si disse. Che ci fa un libro nuovo in mezzo a questa sporcizia? Sembra che qualcuno ce l’abbia messo apposta, proprio adesso.



Un libro attirò la sua attenzione perché aveva la copertina nera
e il bordo colorato di rosso.


Già, che ci faceva? Provò a sfogliarlo, gli girò la testa e per poco non venne meno.
- Per quest’anima santa di mammarella Rachele! – la comare Pinuccia lo giurò ai presenti. – In quel libro si chiamavano i diavoli per nome. C’erano le litanie, ma anziché la Madonna, si recitava per il demonio.

Ah, ma lei non stette a pensarci su. Nonostante il pancione, ridiscese a precipizio per la scala a pioli. Andò in cucina. Nella ciminiera s’era fatta una bella brace. Vi gettò il libro nero dal bordo rosso e… all'improvviso, una fiammata enorme venne fuori dalle pagine che si accartocciavano e sembrò voler bruciare e ridurre in cenere la canna del camino. Vi ululò un mulinello di vento impetuoso, i vetri della finestre tremarono, la stanza si riempì di fumo... la comare Pinuccia, si fece la croce una, due, tre volte, poi più nulla.
- Pina, che è stato? – urlò tata Natale dal suo letto.
- Niente, ta’. Sono andata per mettere il ciocco nella ciminiera e mi è scivolato.
- Basta che non ti sei fatta male?
- No, signurì statevi spensierato!

I rumori continuarono. Qualche giorno dopo, li sentì anche don Giuseppantonio, il cognato sacerdote, che dopo tanti mesi finalmente era venuto a trovare il padre ammalato nella casa nuova e aveva passato la notte nella stanza attigua alla cucina.
- Possibile che voi non avete sentito niente?, chiese al fratello e alla comare Pinuccia. E riferì loro che c’era stato un ininterrotto concerto in cucina: mestoli, schiumarole e cacciacarne, la batteria completa in azione senza che avesse trovato la forza di alzarsi per venire a dare un occhiata per vedere cosa succedesse nella stanza, e per le scale, dove per tutta la notte era continuato il saliscendi. Il fratello e la cognata sapevano che diceva la verità, e ne comprendevano benissimo lo sconcerto davanti alla cucina che appariva pulita e ordinata così come l’avevano lasciata la sera avanti mentre le scale erano lì, davanti a loro, spazzate e tirate a lucido come sempre.
- Io non sono capace – confessò il povero don Giuseppantonio. – Ma in convento c’è padre Pascasio che per queste cose è un’arma proibita. Andatelo a chiamare. Lui sa come interrogare queste anime del purgatorio. Si farà dire di che cosa hanno bisogno.



Padre Pascasio impugnò il crocifisso come un pugnale.


Due o tre giorni dopo, il frate francescano si fece raccontare dei rumori e del libro incendiato.
- E tu hai avuto questo coraggio?, chiese alla comare Pinuccia. Non hai pensato al rischio di poter finire in una sola vampa insieme alle pagine che hai bruciato?
Poi tirò fuori il breviario dal saio. Lo aprì. Si segnò. Recitò una preghiera in latino. Impugnò il crocifisso e lo tenne come il coltello a punta con cui si scanna il maiale. Assaggiò una goccia di rosolio. Si accomiatò, e se ne risalì al convento.

I rumori, invece, rimasero lì e non se ne andarono da nessuna parte. Finché una mattina la comare Pinuccia non decise di tornare a dare uno sguardo alle cianfrusaglie dello spingo, con la scusa di darvi almeno una ramazzata. E vide quella scatola di scarpe tutta ricoperta di polvere, che era convinta di non aver vista nel suo primo sopralluogo. Ci passò sopra la scopa, con un brivido vinse il ribrezzo e la aprì.
- Ve lo giuro sulla buonanima di mammarella Rachele!
- Che cosa c’era nella scatola, comare Pinuccia?

Per un momento Pina u trappitaro sembrava aver perso quella serena padronanza della sua voce che le permetteva di raccontare come si trattasse di cose accadute ad altri tanto tempo prima. Ma fu solo un attimo e, giurando di nuovo sulla buonanima della povera mammarella, appagò la curiosità dei presenti.

Nella scatola c’era il corpicino mummificato di una creaturina.
- Ehi!
Sì, non avrebbe saputo dire se fosse stato di un maschio o una femmina, ma una creaturina di pochi giorni, forse un aborto, comunque uno spettacolo raccapricciante, davanti al quale non si è mai spiegata come avese fatta a non vomitare, lei che (con rispetto parlando) in quei giorni non faceva altro. Sia come sia... e vai a capire cosa fosse successo in passato in quella casa di signori.

- E che faceste comare Pinuccia?
Fece quello che probabilmente avrebbe fatto ognuno dei presenti. Certo non avrebbe gettato il corpicino tra le fiamme. A parte la paura di tornare a rivivere la terribile esperienza del libro nero, c’era da scongiurare il terribile puzzo rivelatore che si sarebbe sprigionato dal fumo del camino per ammorbare l’intero paese. E a gettarlo nell’immondizia non gli bastava l’anima.
- E allora?
Allora, si mise la scatola sotto lo scialle, e recitando una intera posta di rosario si avviò per il camposanto, dove scelse un angolo adeguato e con la paletta del camino scavò una piccola fossa dove adagiò e ricoprì di terra la creaturina mummificata.



Si mise la scatola sotto lo scialle e si avviò per il camposanto.


- E poi comare Pinuccia?
- E poi me ne ritornai a casa, recitando requiemmaterna a non finire. Unsa cosa è certa. Da quel giorno, i rumori sono spariti da casa mia. Così con mio marito siamo tornati a vivere tranquilli, a lavorare e a crescere come meglio possiamo i nostri figli.

- Ah, meno male va, fu il commento di Giovanni Carbone. Come si dice? Male non fare, paura non avere.

Brrr… sentii freddo. Mi alzai per andare ad attizzare il fuoco. Vi aggiunsi un pezzo di legna. Tornai a sedermi accanto a mammarella Rachele. Le rimirai le scarpe, le calze, la gonna, la camicetta, il fazzolettone nero, che da quel giorno avrei indossato anch'io, almeno un anno. Lungo le braccia le correva una fettuccina marrone che terminava nell’abatino di terziaria tenuto tra le dita intrecciate. Piccolina era sempre stata. Ma adesso da morta sembrava proprio una bamboletta. Com’era bella mammarella Rachele. Pensai che anche per lei sarebbe bastata una scatola. Non proprio una scatola per scarpe, ma non molto più grande.

Nota: Si prega di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons
Postato il Martedì, 03 gennaio 2012 @ 23:00:00 di giovanni_mascia
 
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