TORO Web - Quando cercesi e ricciaroli ci cacciarono da Toro /1
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Quando cercesi e ricciaroli ci cacciarono da Toro /1
Araldica torese 2/1. Prima parte di una ricognizione suI forti flussi migratori e immigratori dei primi anni del secondo dopoguerra del Novecento, che mutarono profondamente il tessuto sociale di Toro. Mentre i giovani di Toro partivano a decine e decine per il Venezuela, l'agro di Toro fu colonizzato da contadini provenienti da Cercemaggiore e, soprattutto, da Riccia.




Toro, Via Roma (vista da Piazza del Piano), Cartolina. Illustrata, 1946
(In vendita su Ebay nel 2009)



Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale si è sostanzialmente aperta al mondo l’isola di storia che fino ad allora era stata la nostra terra, chiusa su se stessa e sulle poche decine di famiglie che per secoli avevano eternato senza sosta gli stessi nomi e gli stessi cognomi (di qui la necessità storica dei soprannomi). I lutti e gli orrori dell’ultima guerra diedero un colpo mortale al feudalesimo a Toro. Le pieghe del sudario furono dilaniate dall’irrompere della modernità, che in pochi decenni ha finito per dissolvere anche gli ultimi echi di antichi asservimenti: lo staglio perpetuato nel dono di Natale e Pasqua ai discendenti degli antichi padroni; l’oliva del fondo borghese raccolta in segno di omaggio, senza compenso; la sonorità dei “don” tributati alla ricchezza e alla prepotenza. Così, mentre perdurava ancora l’eco dei cannoneggiamenti e delle incursioni aeree alleate, una intera generazione di toresi riprendeva le rotte transoceaniche che sessant’anni prima avevano già affrontato i loro nonni, ma questa volta privilegiando la terra calienda del Venezuela piuttosto che le città degli Stati Uniti o dell’Argentina. Raccontava il compianto Peppe Iacobucci, detto Mazzola, che quella mattina del 1948 in cui partì per il Venezuela, appena ventenne, insieme a lui partì un intero pullman di toresi perlopiù coetanei.


Giovanni Caruso (Martiniello, in primo piano, il secondo da destra), sulla nave per il Venezuela.
(Archivio Angelina e Cristina Caruso)



Partivano i nativi, mentre sulle sponde della nostra isola che si andava spopolando di forze giovani si assisteva a un fenomeno nuovo, mai verificatosi in passato: cominciavano ad approdare i nuovi coloni, anzi i primi coloni delle nostre terre, lasciate loro a mezzadria, in affitto, vendute. Sì perché i toresi autoctoni erano stati piuttosto ortolani e vignaioli anziché contadini. E comunque non avevano mai risieduto in campagna, avendo preferito raggiungere i terreni al mattino, fossero anche le più lontane masserie, per rientrare invariabilmente in paese a sera, anche a costo di ore di cammino a dorso di asino o a piedi. I nuovi coloni, invece no. Arrivavano da Cerce, e da Riccia soprattutto, dove non c’era terra per tutti e da dove erano già arrivati i pionieri, quattro fratelli Moffa con le loro rispettive famiglie, intorno al 1930. Michele, Giuseppe, Salvatore e Luigi Moffa avevano risposto all’appello del podestà e ricco possidente terriero don Domenico Trotta, la cui moglie – va ricordato – era una riccese anche lei, donna Angiolina Sedati, per prendere a mezzadria la Masseria di famiglia in contrada Selva, prima che Salvatore, pochi anni dopo, si staccasse dai fratelli per spostarsi, sempre come parzenàuele, a servizio di don Guido Trotta, fratello di Domenico, nella tenuta dei Marchisi.


Stemma araldico della famiglia Trotta di Toro


Nel dopoguerra, i primi coloni si insediarono nelle terre poste in vendita dai ricchissimi Magno, sull’esempio del benestante cercese di origine morconese Titta Cassetta, che a monte si era stabilito con la famiglia nel signorile Casino dei Magno con l’annesso giardino e una tenuta con mille e duecento olivi, mentre a valle, a ridosso del ponte sul Tappino, il riccese Salvatore Di Criscio si sistemava con la famiglia addirittura in un pagliaio, prima di dissodare le terre e, con le pietre recuperate, costruire la masseria battezzata con il suo soprannome, masseria Barbaroscia.


Fine Anni Quaranta, Titta Cassetta con la famiglia nel Parco del Casino dei Magno
(Archivio Marisa Serpone)


In genere, i nuovi arrivati presero alloggio in vecchie e decrepite masserie, che spesso si presentavano addirittura con il pavimento in terra battuta e sempre sfornite di tutto, a cominciare dalla luce elettrica e dall’acqua corrente (se c’era, c’era l’acqua dei pozzi). Recuperando come abitazioni quegli edifici, che i toresi avevano usato come ricoveri occasionali o stalle, i contadini cercesi e riccesi andarono a popolare buona parte del nostro agro lamoso e indocile, devastato nei secoli da terremoti immani, in particolare le terre poste al di là del Tappino: Piana Antonacci, Selva, Bracciolo... Di fronte a loro un avvenire durissimo, che caratterizzandoli rispetto ai residenti in paese, alla lunga li avrebbe premiati con un oggettivo benessere, frutto di lavoro, sacrificio, e fiducia nella terra, in quella terra alla quale il torese aveva chiuso in fretta le porte in faccia.


Fine Anni Quaranta. Dopo aver abitato in un pagliaio per qualche anno,
i Di Criscio (Barbaroscia), costruiscono la loro prima minuscola masseria a ridosso del Ponte,
Sulla collina di fronte, Toro.
(Archivio Stefano Di Criscio)


Nella sua eccezionalità, il fenomeno non poteva sfuggire alla vena satirica e ultrapopolare di zio Domenico Grosso, che concepì allora la canzone che è diventata in seguito una sorta di nostro inno comunale:

Cercise e recciarule:
ci hanne cacciate fore da Ture.:
Ehi Tu’ Ture Tu’:
tu n’ha’ donda zappà chiù.:
:
Nella stessa canzone, zio Domenico stigmatizzava i tempi nuovi di stravolgimento sociale, segnalando come altri contadini, questa volta i toresi Giovanni Colledanchise, ex fattore dei Magno, detto U vaccare, e Filippo Cutrone, detto Baccalà, non avessero comprato terre ma proprio il Palazzo Magno di via Roma, il simbolo di potere e ricchezze inimmaginabili a quei tempi, dove erano andati ad abitare con le loro famiglie e pertanto erano ora da onorare anch’essi con il “don” riservato ai galantuomini (in uno con la simpaticissima Gildonese – zia Rosina Germano in Ferrara):

Don Giuuanne all’Orïente
e don Felippe all’Occidente…
Ci aresponne ‘a Celdenése
e pure ì’ so’ ‘na marchése.
Ehi Tu’ Ture Tu’
tu n’ha’ donda zappà chiù.

Così, mentre i contadini cercesi e riccesi si insediavano con le loro famiglie nelle terre cui i toresi avevano girato le spalle per correre dietro ai subiti guadagni intravisti oltreoceano, l’anagrafe paesana, ne registrava, facendoli propri, i cognomi mai uditi prima e che qui doverosamente trascriviamo, con l’indicazione della contrada, che, caso per caso, andarono a popolare. Sia ben chiaro che ci limitiamo a fotografare la situazione aggiornata a metà anni Cinquanta, quando l’esodo verso le nostre terre, se non concluso, si era manifestato in tutta la sua portata, mentre erano ancora di là da venire due costumanze che avrebbero sconvolto una volta per tutte le caratteristiche onomastiche e anagrafiche dell’isola che era stata e non sarebbe più stata il nostro paese. Alludiamo ai parti ospedalieri che a distanza di pochi anni avrebbero reso campobassano ogni nuovo nato, e l’accentuata mobilità dei rapporti sociali che favorendo i matrimoni fuoriterra avrebbe moltiplicato cognomi e paesi di origine, anche esteri dei nostri concittadini.
                      Giovanni Mascia
                      (Continua)





L'articolo è stato pubblicato anche sul Bollettino de La voce di Mercurio, Giugno 2013.


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Postato il Sabato, 05 ottobre 2013 @ 10:01:27 di toroweb
 
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