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Il presepe vivente di don Michele (Racconto di Natale/ 2) |
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Il secondo racconto di Natale che presentiamo agli amici di Toro e di Toroweb è firmato da Luca Castiello. Il suo è un testo ammantato di magia, ma ispirato alla cronaca cruda dei nostri giorni . La speranza è che così come nella favola, anche nella vita reale ai problemi e alle sofferenze si possa porre rimedio tutti insieme. Buon Natale e Felice Anno Nuovo a tutti!
Chiesa madre di Toro, presepe 2014
I
Il calendario ingiallito appeso al muro della sagrestia, e la neve adagiata sulle vette dei monti dipinti all’orizzonte, ricordavano a Don Michele che dicembre ormai era giunto sul borgo in collina.
Aveva tantissime faccende da sbrigare e la cosa lo rendeva assai nervoso. L’elenco era lì, sulla scrivania invasa dai libri, e lo importunava da giorni: vestizione della statua della Immacolata Concezione, ultime prove del coro parrocchiale, preparazione dei chierichetti, incontro con il maresciallo dei carabinieri e con il sindaco per fissare l’ora della processione.
Il Don aveva i neuroni in tumulto per colpa dei mille impegni che gli sbattevano da una parte all’altra della scatola cranica.
Tuttavia, il Natale si avvicinava galoppando a spron battuto, e Don Michele già fremeva per l’appuntamento più importante del’anno: la costruzione del presepe.
Era, per lui, un rituale magico: mentre ripuliva i pastorelli dalla polvere che li aveva ingrigiti lungo il corso dell’anno, aveva le mani tremanti tanto era emozionato; sul volto aveva disegnato un ampio sorriso che teneva per mano le orecchie. Perciò, di tanto in tanto, si voltava a destra e a sinistra per assicurarsi che nessuno lo potesse vedere: non voleva che i parrocchiani lo considerassero un matto.
A volte si chiudeva in chiesa per restare in intimità con i suoi ricordi. Si sedeva sul primo banco davanti all’altare maggiore e fissava l’enorme pala dell’Annunciazione posta sotto l’abside. Poi cominciava il viaggio nel tempo che lo portava nella piccola casa dei genitori, davanti al fuoco del camino di mattoni rossi. Lì, la sera della vigilia di Natale, tutta la famiglia si riuniva: il nonno raccontava le sue storie, mentre lui volgeva lo sguardo oltre le montagne di cartapesta del presepe sognando chi sa cosa.
Al piccolo Don Michele, allora, sembrava quasi di sentire l’acqua di carta alluminio del torrente scorrere tra le gambe dei pastori; gli pareva che le pecorelle brucassero davvero il muschio e che, in fondo, quel piccolo mondo fatto di carta e plastica, non era poi più finto di quello degli adulti.
Per la costruzione del presepe, Don Michele aveva tre punti saldi: il muschio, i grossi tronchi di quercia che conservava gelosamente nella cantina della parrocchia e la piccola immagine di gesso di Gesù Bambino.
Le altre mercanzie che servivano per allestire la scena della natività potevano avere qualsiasi natura ed arrivare da qualsiasi parte del mondo, poco importava. Ma quelle tre cose, dovevano essere come diceva lui.
Il muschio l’avrebbe raccolto di persona, da solo, in una parte del bosco che riposava in contrada Tre Pini: era, questa, una fetta di collina che si affacciava sul borgo, oltre la valle a ottocento metri di altitudine, ricoperta di una terra nera che sembrava pulsare per quanto era fertile, e che dava vita ad una vegetazione che avrebbe fatto invidia alle foreste equatoriali.
Ecco, quello era il posto per la raccolta del muschio di Don Michele: non nel senso che lui preferiva quel luogo ad altri, ma nel senso che nessun altro poteva metterci piede se teneva alla salute delle sue natiche.
Una volta, qualche anno addietro, uno sventurato di un paese vicino, ignaro della cosa, osò cavare il muschio nella parte di bosco di Don Michele e proprio quando anche il parroco si trovava in zona per un sopralluogo.
Non successe chi sa cosa, anche perché l’intruso non ebbe modo di proferire parola: due pedate del Don e giù rotoloni per la collina. Le cronache raccontano, tuttavia, che il pover’uomo non riuscì a sedersi per i successivi cinque giorni e fu costretto persino a dormire a pancia in giù.
La violenza misurata di Don Michele era tuttavia giustificata dai parrocchiani: il muschio che nasceva nel borgo in collina non aveva eguali al mondo e, se qualcuno voleva portarselo a casa, doveva quantomeno chiedere il permesso. Se poi ne avanzava…
In realtà, non ne avanzava mai, perché a Don Michele non sarebbe bastato tutto il muschio del mondo e quel poco che restava lo regalava alla gente del paese che amava avere l’invenzione di San Francesco in casa durante il Natale.
Se avesse potuto farlo senza prendersi del matto dai compaesani, l’avrebbe messo anche sul tetto della chiesa.
Gli piaceva da morire il muschio della sua terra.
D’altra parte, la cappella di San Nicola dove veniva allestito il presepe ormai da decenni, era molto ampia ed una certa quantità di muschio in realtà serviva. Il fatto è che Don Michele ne metteva così tanto che i pastori alti trenta centimetri ne avevano fino al petto e, a volte, sembrava che chiedessero aiuto per uscire da quella giungla.
Una volta posato il muschio, Don Michele avrebbe dovuto ricacciare dalla cantina della parrocchia i grossi fusti di quercia di cui nessuno conosceva la provenienza e a cui nessuno sapeva dare una età. Sembrava quasi che fossero caduti dal cielo, anche perché avevano una fattezza pensata apposta per costruire la capanna dove nacque Gesù Bambino. Parevano scolpiti nella Grecia antica per quanto erano belli.
Per portarli nella cappella di San Nicola ed assemblarli, Don Michele, benché fosse un omone di un metro e novanta centimetri per novantacinque chili, aveva comunque bisogno di aiuto, dato che i tronchi erano davvero troppo pesanti. Così, ogni volta, chiedeva aiuto agli anziani del comitato feste parrocchiali: quattro uomini in tutto, otto braccia, e tanto bastava.
Ogni anno, i cinque architetti cercavano di amalgamare quei fusti in modo diverso: nonostante non fosse cosa facile, ci riuscivano ogni volta, destando stupore e meraviglia negli occhi dei compaesani.
Una volta costruita la grotta della natività, Don Michele tornava a lavorare da solo.
Si divertiva come un bambino mentre posizionava le statuine sul muschio: prima i pastorelli piccoli che partivano da lontano, poi quelli più grandi che si avvicinavano alla grotta, poi le pecorelle e tutti gli altri protagonisti del Natale, lasciando per ultimi il bue, l’asinello, San Giuseppe e la Madonna.
Questo era un lavoro semplice e veloce, ma la presenza delle statuine era destinata a durare poco: dopo qualche giorno, avrebbero lasciato il posto ai bambini della natività vivente.
Tutto il borgo si mobilitava per rievocare la nascita di Gesù: uomini, donne , ragazzi, bambini, anziani, tutti davano il proprio contributo per ricreare al meglio il momento culmine del Natale, ognuno secondo il proprio talento.
Niente riusciva a tenere insieme la gente del paese come il Santo Natale.
Certo che tra la gente del borgo in collina c’erano dissapori, disaccordi, invidie, liti, come in qualsiasi comunità del mondo, grande o piccola che sia. D’altra parte, se non ci fosse il male, a che servirebbe il bene?
Ma quando era il momento di organizzare il presepe vivente, ogni inimicizia era messa da parte.
Non esisteva rancore, non c’era spazio alcuno per l’odio, non era tempo di cattivi pensieri.
Tutti insieme a lavorare per il presepe del paese, poche chiacchiere, non c’era tempo da perdere.
Per posizionare Gesù tra i genitori era necessario aspettare la fine della messa della vigilia.
La statuina di Gesù Bambino era riposta in una teca in sagrestia e soltanto il parroco aveva le chiavi per aprirla.
Era semplice, di poco valore. Una statuina di gesso pitturata a mano. Qualcuno avrebbe potuto definirla persino banale. Ma era di una bellezza incalcolabile. E non di una bellezza estetica, che si apprezza con gli occhi e che serve a ben poco. Ma di una bellezza che si apprezza con il cuore e ti rimane dentro, per dare conforto anche quando sei triste.
Quando Don Michele smarriva la speranza, gli bastava fermarsi davanti al Gesù Bambino per un minuto soltanto. Poi era come se il mondo avesse perso in un istante tutti i suoi difetti.
Le celebrazioni liturgiche dell’otto dicembre furono un successo...
II
Le celebrazioni liturgiche dell’otto dicembre furono un successo: Don Michele non aveva mai visto tanta gente in chiesa.
Tuttavia, come accadeva ormai da sette anni, passata la festa dell’Immacolata, il parroco cominciava ad intristirsi a poco a poco giorno dopo giorno, fino a quando, nell’imminenza del Natale, il muso gli toccava quasi le scarpe.
In quei giorni, Don Michele non era il solo ad essere malinconico.
Tutta la gente del borgo in collina era molto triste e rimuginava sul Natale di sette anni prima: quella era stata l’ultima volta che il presepe aveva avuto un Gesù Bambino in carne ed ossa.
Erano ormai sette anni che, nel borgo in collina, non nasceva un bambino.
Per i primi due anni, Don Michele e gli altri si erano accontentati di bambini nati due o tre anni prima, poi si erano stancati. E’ vero che Gesù è il Signore dell’universo, ma un neonato è pur sempre un neonato e non poteva essere grande come un bambino di due o tre anni.
Così, con tanta mestizia, andava in scena ormai da sette anni un presepe vivente monco: pastorelli, Madonna, San Giuseppe e persino pecore, bue e asinello in carne ed ossa, ma Gesù Bambino di gesso.
Bellissimo, per carità, ma pur sempre di gesso.
Questa cosa faceva scappare i cavalli a Don Michele. Cercava di nasconderlo, ma vedere il Gesù Bambino di gesso nella grotta durante la messa della vigilia, gli faceva drizzare anche i peli delle mani, neanche fosse un lupo mannaro.
Negli ultimi anni, aveva cercato di ingraziarsi tutto il paradiso per ottenere la grazia di una nascita in paese: Gesù (dopotutto era per lui che si organizzava il compleanno, no?), la Madonna, San Giuseppe, San Giovanni Battista, San Nicola, Santa Lucia, Santa Rita, Sant’Antonio: novene su tridui, tridui su novene, preghiere speciali e invocazioni straordinarie, rosari interminabili, ceri enormi che costavano una fortuna, ma il risultato era sempre lo stesso.
Niente di niente.
Se fosse dipeso dal borgo in collina, la scuola avrebbe potuto chiudere già da tempo.
Don Michele, seduto davanti al presepe con un mozzicone spento di sigaro tra le labbra, fissava la grotta e pensava al Gesù Bambino di gesso.
Era la sera prima della vigilia.
Anche quell’anno non c’era stato alcun miracolo.
Il luogo in cui riposava il muschio di Don Michele
III
In contrada Tre Pini, non lontano dal luogo in cui riposava il muschio di Don Michele, c’era un capannone abbandonato e mezzo diroccato dove, in passato, la famiglia dei Torretti aveva tenuto le proprie mucche.
Era un posto difficile da raggiungere per colpa di una folta vegetazione e di un dirupo che lo sormontava; neppure dalle case costruite sulla cima della collina di contrada Cima Verde si poteva scorgere alcunché, tranne una piccola porzione di tetto, fatta di lamiera e di spazio vuoto.
Uno spazio vuoto, come quello nel cuore di Amer, che cresceva ad ogni respiro. Aumentava implacabile dal giorno in cui aveva perso la sua patria, la sua famiglia e la sua casa.
Era successo tre mesi prima, quando la guerra gli aveva mangiato tutto come una bestia famelica.
Era rimasto ben poco ad Amer, da quel maledetto giorno: il padre, ormai anziano e stanco, e un cumulo di macerie. Le macerie della sua casa, del suo popolo e della sua storia.
Subito dopo il bombardamento del suo villaggio, pensò di togliersi la vita.
Meglio morire subito, piuttosto che finire vivo nelle mani dell’esercito regolare o, peggio ancora, in quelle dei terroristi. Avrebbe sofferto pene più dolci all’inferno.
Ma fu soltanto un attimo.
Poi pensò a Maryam e scelse la vita.
Iniziò a correre come un matto, Amer, incurante delle bombe che scoppiavano tutt’intorno, lungo i due chilometri di macerie che portavano alla casa di Maryam, ancora viva per miracolo, unica della sua famiglia. Gli altri erano tutti morti.
Non piangeva, Maryam. Non le erano rimaste neppure le lacrime. La paura e la guerra le avevano portato via anche quelle.
Ma non Amer che, adesso, era lì con lei. Insieme al bambino che portava in grembo che doveva nascere a qualsiasi costo.
I due giovani lasciarono il loro villaggio tre giorni dopo quel giorno di straordinaria follia e, grazie ai risparmi dei loro genitori, riuscirono a mettersi in viaggio verso occidente.
Con l’aiuto di amici fidati, riuscirono a raggiungere il confine turco dove li aspettava una nave che li avrebbe portati in Grecia.
All’inizio il cammino fu difficile, tuttavia le condizioni del viaggio furono dignitose.
L’ultima traversata, quella dalla Grecia alle coste italiane, fu durissima.
Il mare mosso, che di notte era tutt’uno con il cielo nero, la mancanza di cibo e acqua, la crudeltà degli aguzzini che buttavano in mare chi osava lamentarsi.
Chiunque avrebbe preferito un viaggio sullo Stige con Caronte.
Il barcone toccò le coste pugliesi in piena notte: scaricò la merce e riprese il mare.
Amer e Maryam avevano paura di essere presi dalla polizia: i centri di accoglienza italiani non godevano di buona reputazione.
Decisero di continuare il viaggio cercando di farsi notare il meno possibile.
Con un po’ di fortuna avrebbero raggiunto presto la Germania, dove i profughi venivano accolti con umanità: in poco tempo avrebbero avuto una nuova casa e un nuovo lavoro.
Dopo due giorni dallo sbarco, Amer e Maryam non avevano percorso molta strada. Avevano viaggiato perlopiù a piedi seguendo sentieri di campagna, usare autobus e treni sarebbe stato troppo pericoloso. Una donna incinta, a pochi giorni dal parto, era davvero difficile da far passare inosservata.
Lungo il cammino, cercavano di non allontanarsi troppo dalla strada per non perdere l’orientamento. Ma quando per poco non furono notati da una pattuglia della polizia che si era addentrata chi sa per quale ragione nel bosco, decisero che era meglio salire su per la collina. Avrebbero cercato un rifugio che li riparasse dal freddo. Maryam non poteva e non doveva ammalarsi.
Così giunsero al capannone abbandonato in contrada Tre Pini che era ormai notte e lì decisero di fermarsi per riposare e per nascondersi.
Fantasmi. La guerra li aveva trasformati in fantasmi.
Ora Maryam riposava, mentre Amer guardava il cielo attraverso il vuoto del tetto danneggiato.
Pensava alla sua patria in cenere, alla sua famiglia, a suo padre rimasto solo e alle rovine della casa in cui era cresciuto. Un grosso nodo gli stringeva la gola e pareva soffocarlo.
Nevicava.
Amer si alzò lentamente, per non svegliare Maryam, e uscì fuori in mezzo agli alberi.
I fiocchi gli cadevano sulla testa, sul viso, sulle mani e si ammucchiavano uno sull’altro.
Sebbene fosse stanco e debole, cominciò a camminare in quel tappeto candido e morbido, prima lentamente, poi sempre più veloce fino a correre e a ruzzolare lungo il pendio.
In un istante il nodo alla gola svanì.
A volte basta poco per essere felici.
E per avere il desiderio di restare vivi.
Per le strade e per le viuzze dell’abitato, s’aggirava solitario in divisa e stivaloni neri il freddo
IV
Era quasi sera.
I tetti ordinati del borgo in collina mugugnavano seccati sotto il peso della neve.
Per le strade e per le viuzze dell’abitato, s’aggirava solitario in divisa e stivaloni neri un freddo da far intorpidire le orecchie, mentre le ciminiere sbuffavano senza sosta pur di riuscire a scaldare chi era rimasto a casa.
Nessuno, neppure tra i più anziani, ricordava un inverno così gelido.
Era come se tutto il freddo del mondo si fosse trasferito lì, a dar fastidio a quella povera gente, che null’altro desiderava se non festeggiare in pace il Natale.
Tuttavia, c’era qualcuno in paese che del gelo e della neve neppure si era accorto.
Era la vigilia di Natale, mancavano ormai poche ore alla Messa della mezzanotte e Don Michele non riusciva a darsi pace. Misurava in lungo e in largo le tre navate della chiesa madre, scuotendo la testa ogni volta che passava davanti al presepe. Ogni tanto si fermava di fronte al Cristo Crocifisso: allargava le braccia, se le faceva scendere pesantemente sui fianchi e ricominciava a camminare, borbottando a voce alta cose che solo il buon Dio poteva sentire.
Aveva preso una decisione grave, si era preso una grande responsabilità: niente presepe vivente, quella notte.
Se non si poteva avere un bambino vero in mezzo a Giuseppe e Maria, meglio non avere niente ed accontentarsi delle statuine senz’anima.
La disposizione non era piaciuta a tutti, in paese; anzi, qualcuno aveva mormorato per le stradine deserte approfittando di incontri fortuiti. Si parlava di atteggiamenti da tiranno, di scelta esagerata che non teneva conto della volontà della maggior parte dei compaesani che la natività vivente la voleva eccome. Anche se il Gesù Bambino in carne ed ossa fosse venuto da un paese vicino, in prestito.
Sapeva tutto, Don Michele. Conosceva il malessere che da qualche giorno abitava le case del borgo. Ed era consapevole che quella notte si sarebbe giocata la stima dei suo parrocchiani.
Ma non voleva accontentarsi. Accettare un presepe vivente mutilato avrebbe significato accettare una sconfitta. E a Don Michele non piaceva perdere.
Se Dio non voleva più nascere in carne ed ossa nel suo presepe, se non voleva più nascere come bambino del borgo in collina, pazienza. Ma nessun ripiego.
Mentre pensava queste ed altre cose, Don Michele ricordò che il tempo non si ferma, neppure quando servirebbe per riflettere: guardò l’orologio che aveva al polso e si accorse che erano già la sette.
Non aveva voglia di cenare.
Uscì in mezzo al sagrato sommerso dalla neve e decise che era il caso di mettersi al lavoro. Raggiunse la cantina dalla strada, invece di usare l’angusto passaggio che la collegava dall’interno alla cappella di San Nicola: non voleva rovinare il muschio a poche ore dalla Messa. Litigò per qualche minuto con la vecchia porta dello scantinato che proprio non voleva chiudersi. Poi con una vanga tornò sul sagrato e si mise a spalare. Continuando a borbottare.
Uscì in mezzo al sagrato sommerso dalla neve e decise che era il caso di mettersi al lavoro...
V
La vigilia di Natale non era e non poteva essere un giorno di festa per Amer e Maryam.
Non in quelle condizioni.
Avevano trascorso la notte nel capannone mezzo diroccato in contrada Tre Pini, avvolti in coperte, stracci e teli di plastica per cercare di sopravvivere al gelo.
Amer non chiuse gli occhi neppure per un istante: era molto preoccupato per Maryam e passò i minuti a fissare il suo volto cercando di percepire eventuali segni di malessere.
Sembrava che non ci fosse più posto per la luce, in quell’infinità di tenebre.
Ma la luce arrivò, finalmente, quando fu mattina: un debole raggio di sole intiepidì il viso di Maryam.
La notte era passata, ma dovevano rimettersi in marcia, il cammino era lungo e non avevano più cibo.
Furono diversi i tentativi di lasciare contrada Tre Pini quella mattina, ma ogni volta, dopo pochi passi, Maryam si piegava dal dolore e si accasciava a terra. Il bambino stava per nascere e lei era esausta.
Era quasi buio quando Amer prese in braccio la ragazza e cominciò a scendere la collina.
Affondava nella neve fino alle ginocchia, era affamato, quasi non sentiva più le mani dal gelo.
Era disperato.
Pensò che il loro Dio li aveva abbandonati, che li voleva morti in una terra lontana e ostile. Morti per il freddo, senza cibo, senza riparo, come cani randagi.
Arrendersi non poteva essere un errore.
Avrebbe raggiunto la fine del pendio e si sarebbe fermato sotto il grande albero di ulivo:una tomba dignitosa per lui e la sua famiglia.
Lì avrebbero atteso la morte che li avrebbe salvati da un fato avverso ed ingiusto.
Ancora una cinquantina di passi. Poi trenta. Poi dieci.
Arrivato sotto l’ulivo Amer, nonostante avesse gli occhi appannati dalle lacrime, vide le luci del borgo in collina e si fermò di scatto. Non erano poi così lontane.
Strinse forte a sé Maryam che nel frattempo si era addormentata.
Poi riprese a camminare, deciso e veloce.
Poco dopo, l’albero di ulivo si era già fatto piccolo piccolo alle sue spalle.
Erano passate da poco le sette quando Amer e Maryam arrivarono in paese.
Approfittarono del buio e del freddo: le strade erano deserte e, risalendo lungo un sentiero che dagli orti si inerpicava su per il borgo, arrivarono alla viuzza che abbracciava le fondamenta della chiesa madre verso est.
Era una stradina piena di cantine, dove gli abitanti del borgo conservavano ogni ben di Dio.
Amer se ne accorse dagli odori che impreziosivano l’aria gelida della notte. Cominciò a muoversi tra le case a destra e a sinistra come un pendolo, appoggiandosi prima ad una porta, poi ad un’altra, poi ad un’altra ancora. Niente da fare, erano tutte ben chiuse. Maryam gli sussurrò di non arrendersi, di provare ancora. Ci doveva pur essere una porta aperta da qualche parte.
Un’altra spallata e una porta si aprì.
Amer adagiò la ragazza su dei cartoni lasciati sul pavimento e cercò qualcosa da mangiare. Per non essere scoperto, non accese la luce, ma gli era impossibile muoversi in quello spazio angusto e nero come la pece.
Tastando le pareti, notò una porta, oltre la quale una serie di gradini promettevano una soluzione al problema. Riprese in braccio Maryam, che era ormai svenuta per la fatica e per il dolore, e salì gli scalini fino in cima. Ancora buio, ancora freddo.
Ora sentiva di nuovo l’erba sotto i suoi piedi ed era sicuro di toccare dei tronchi d’albero proprio davanti a lui. Come erano finiti di nuovo in strada?
Era stremato. Distese Maryam sull’erba, sotto i tronchi incrociati a volta, e si abbandonò al suo fianco.
Prima di chiudere gli occhi, incontrò lo sguardo di un omino vestito da pastore, alto non più di una trentina di centimetri, con una minuscola pecorella al fianco.
Pensò di essere diventato pazzo. Poi si addormentò.
Gesù Bambino lo aspettava sorridendo
VI
Don Michele era immobile, fronte corrucciata e pugni stretti, davanti alla teca dove Gesù Bambino lo aspettava sorridendo. Un profondo sospiro tagliò l’aria davanti a lui.
Mancavano pochi minuti alla Messa della notte, quando la delegazione del borgo capeggiata dal sindaco ingegner De Vitis, entrò in sagrestia: i compaesani volevano il presepe vivente, per quella notte andava bene anche il Gesù di gesso, non sarebbe stata poi la prima volta. Avrebbero cercato in tutti i modi di far ragionare il Don per salvare il Natale.
La chiesa era stracolma. Fuori, sul sagrato imbiancato, aspettavano infreddoliti Maria, Giuseppe, bue, asinello, pastori e pecore, in attesa della tanto sospirata fumata bianca.
Il sindaco, coscio dell’importanza del momento, aveva deciso di dare un tono solenne e formale al suo intervento: aveva costretto Gino il barbiere a riaprire la bottega alle dieci di sera per farsi aggiustare le basette ed aveva persino indossato la fascia tricolore, appena lavata e stirata.
Ora, con tutti i suoi centottantasette centimetri, si era piantato davanti a Don Michele per esporre con fermezza la sua richiesta, in nome di tutta la cittadinanza.
Diede un’accomodata al nodo della cravatta, si schiarì la voce e quando fece per aprir bocca il parroco gli voltò le spalle. Poi, a testa bassa e con un alito di voce, gli intimò di non perder tempo: i figuranti potevano tornare a casa.
Per qualche istante fu il silenzio assoluto.
Poi, l’ingegner De Vitis cercò di riprendere il suo discorso, ma non fece in tempo a finire la prima sillaba che Don Michele aveva già mandato in frantumi la teca di Gesù Bambino, con un pugno che avrebbe fracassato la testa ad un elefante.
Il neonato di gesso giaceva a terra, la testa scheggiata, un braccio in fondo alla stanza, un piede chi sa dove.
Nessuno ebbe il coraggio di aggiungere altro.
I compaesani guidati dal sindaco, a quel punto, girarono i tacchi e, con un impercettibile mormorio di sottofondo, si allontanarono verso il sagrato.
Il tempo di stringere uno straccio attorno alla mano ferita e Don Michele si avviò verso l’altare, con i quattro chierichetti che neppure respiravano pur di non far rumore.
La tradizione del borgo in collina voleva che le luci della chiesa rimanessero spente fino al canto del Gloria, momento che segnava la nascita del Cristo e la venuta della luce nel mondo.
Silenzio e buio. Più che la celebrazione del Natale, sembrava la sera del Venerdì Santo.
Intanto Amer e Maryam, riportati al mondo dal poderoso Adeste Fidelis del coro parrocchiale, si erano rintanati in fondo alla grotta.
Nessuno li aveva notati, perché nessuno quel giorno si era avvicinato al presepe.
Ma Maryam aveva le doglie. Era madida di sudore e non ebbe la forza di resistere.
Un urlo di dolore riempì tutta la chiesa.
Il celebrante smise di parlare. Tutti si guardavano intorno cercando di capire cosa stesse accadendo.
Quando Maryam urlò per la seconda volta, Don Michele fu il primo a capire la provenienza delle grida.
Afferrò il grosso candelabro di ferro posto dietro il leggio e si diresse con decisione verso San Nicola.
Giunto al gradino della cappella, si fermò un istante. Poi, fece gli ultimi passi molto lentamente, con il sindaco ed il resto dei compaesani che gli guardavano le spalle.
Quando fu abbastanza vicino per vedere in fondo alla grotta, quasi gli si fermò il cuore: due ragazzi terrorizzati e sfiniti nella capanna del suo presepe. Lei incinta ed in preda alle doglie, lui che le faceva scudo per proteggerla dal resto del mondo.
Per un attimo alzò lo sguardo verso San Nicola per chiedere lumi, visto che lui non ci capiva più niente.
Poi si voltò e, lanciato lo sguardo oltre la folla fino all’ingresso della sagrestia, con un urlaccio da far tremare le pareti ordinò al dottor Zamboni di far presto.
Amer capì che quella era brava gente. L’istinto lo rassicurava: si poteva fidare e, comunque, non aveva scelta.
Era il momento del Gloria. Un chierichetto accese tutte le luci.
Un istante dopo, tra stupore e meraviglia, nacque un bellissimo bambino.
Il borgo in collina non aveva mai vissuto un Natale così intenso ed emozionante.
Toro, Natale 2015
Luca Castiello
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Postato il Giovedì, 24 dicembre 2015 @ 10:15:00 di giovanni_mascia |
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