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Il confinato antifascista milanese e la pecora torese
Briciole di storia dolorosissima. E un aneddoto assai gustoso basato su una vocale caratteristica del dialetto di Toro, dal suono così aggrovigliato. Fu causa di un malinteso che ebbe per protagonisti una popolana torese che si tirava dietro una pecora e un confinato politico, di cui non ci è rimasto il nome e nemmeno la professione, ma solo la città d’origine: Milano.


Chiolini, Guglielmo, Anziana con tre pecore

Forse non tutti sanno che a Toro, come in diverse altre località molisane, furono inviati in confino dal regime fascista alcuni oppositori politici ed ebrei. Per essere precisi, definire qualcuno di loro oppositore è dare dignità politica a dei poveri cristi, rei solo di aver sfogato il loro malumore in tempi in cui i ruffiani erano padroni di città e paesi, sempre pronti a denunciare chicchessia pur di guadagnarsi la benevolenza dei gerarchi in camicia nera.

Tuttavia, la storia dei confinati toresi non è stata mai scritta ed è difficile si possa scrivere, stante la cronica mancanza di materiale. Pure per una base di partenza storicamente accertata, riportiamo l’elenco stringato che Raffaele Colapietra ci ha lasciato nel suo famoso 1915-1945: trent'anni di vita politica nel Molise (1975)

    - Dal febbraio al dicembre 1938 è confinato a Toro Giovanni BARATTA, bracciante di Littoria, per offese al duce e per essere stato in contatto con esponenti comunisti.
    - Dall’aprile 1943 alla caduta del fascismo, Dante BOVATI, manovale di Monza, condannato a due anni per aver cantato Bandiera rossa (rimarchevole qui l’immanità della pena);
    - Dall’ottobre 1940 all’ottobre 1941, l’impiegato varesino Ernesto BOZZI, ex squadrista, per aver lamentato la mancanza di libertà d’informazione in Italia;
    - Dal giugno 1940 all’agosto 1941, Giulio BIASUTTI dottore in chimica, fiorentino, per aver attaccato manifesti antitedeschi. (pp. 204-205).

Con ogni probabilità (aggiungiamo noi) il dottor Biasutti è il professore ebreo che, stando alle testimonianze molteplici della popolazione torese, abitando a pensione in casa della madre vedova, prese a ben volere il giovane Michelangelo Cutrone (alias Cociafoglie) orfano di padre, curandone la preparazione scolastica e avviandolo agli studi. E si affezionò così tanto al ragazzo, da indicarlo correntemente come "suo figlio".

Allude in particolare al "padre" adottivo del giovane Cociafoglie, Frank Salvatore nell'articolo Dalle rue molisane ai grattacieli d'America in «Almanacco del Molise» 1996-1997, in cui rievoca l'infanzia e l'adolescenza a Toro, prima di trasferirsi nel 1947 negli Stati Uniti dove era emigrato in precedenza il padre. A proposito della impossibilità di continuare gli studi nel 1943, a causa del fronte di guerra che si era spostato a Toro e nel Molise, scrive Salvatore:
    Essendo chiuse le scuole, per continuare il nostro studio spesso ci procuravamo un tutore privato, A causa della guerra, i professori mancavano, ragion per cui ci rivolgemmo a coloro che i fascisti ci avevano insegnato a odiare, questi signori, da noi perseguitati e disprezzati, erano i confinati ebrei del nord Italia, che il fascismo aveva mandato nell'Italia del Sud, poiché non condividevano l'ideologia fascista. Erano gentili e per noi furono grandi maestri. erano altre vittime del "Cristo s'è fermato a Eboli".

Ad affiancare i confinati, sempre secondo la testimonianza di Frank Salvatore, erano alcuni paesani, presi a bersaglio anche loro del disprezzo e degli insulti da parte dei giovani fascistelli del luogo:

    Altri perseguitati come i confinati erano nostri paesani che, secondo il lavaggio di cervello fattoci dai fascisti, avevano commesso l'errore di essere stati a lavorare negli Stati Uniti e, avendo conosciuto le ricchezze e le risorse d'abilità di quel paese, non condividevano le idee dei nostri fascisti paesani. Per questo ci avevano insegnato a disprezzarli e insultarli, chiamando un certo zio Salvatore, Churchill, e lo zio Peppino Iosue [il nonno omonimo di Peppino Pelliccione] Roosvelt, spesso correndogli dietro, tirando loro la giacca come se fossero stati due pagliacci, Questa era l'offesa peggiore che io ricordi essere stata commessa e farei del tutto per cancellarla dal mio cure affamato di giustizia",

Che sia stringato l'elenco di Colapietra lo mostra il fatto che riporta solo gli antifascisti al confino a Toro il cui cognome inizia con la lettera B, come analogamente per i confinati dell'altra decina di comuni molisani compresi nella sua ricognizione. Ad essa aggiungiamo i nominativi di tre confinati pugliesi a Toro (tratti dal libro di Katia Massara, Il popolo al confino. La persecuzione fascista in Puglia. Volume I (1991):

    - CAMASSA Giuseppe di Francesco e di Milizia Angelina, nato a Sava (TA) il 22 marzo 1901, residente a Siena, coniugato con quattro figli, venditore ambulante, antifascista.
    Arrestato il 26 agosto 1938 per avere più volte espresso critiche al regime affermando che «si stava meglio ai tempi dei rossi, perché si guadagnava molto e si lavorava poco». Assegnato al confino per anni tre dalla CP di Siena con ord. del 13 settembre 1938. Sedi di confino: Tremiti, Sant'Elia a Pianisi, Toro, Tremiti, Ventotene; Cassano Ionio, Oriolo Calabro. Liberato il 29 novembre 1941 per fine pe-riodo. Periodo trascorso in carcere e al confino: anni tre, mesi tre, giorni 4.
    A Sant'Elia a Pianisi fu arrestato e condannato il 27 giugno 1939 a tre mesi di arresto per contravvenzione agli obblighi dalla pretura di Casacalenda. Durante il periodo di confino soffri di artrite, ragione per la quale fu trasferito in diverse sedi.

    - LAMURAGLIA Domenico fu Oronzo e di Dimaggio Giacomina, nato a Gravina di Puglia (BA) il 23 agosto 1877, residente a Garaguso (MT), coniugato con tre figli, falegname, ex combattente, antifascista.
    Arrestato il 16 marzo 1940 per offese al duce. Assegnato al confino per anni tre dalla CP di Matera con ord. del 10 maggio 1940. Sedi di confino: Toro, Pisticci, San Fili. Liberato il 7 novembre 1942 nella ricorrenza del ventennale. Periodo trascorso in carcere e al confino: anni due, mesi sette, giorni 23.

    - TARANTINI Raffaele di Giovanni e di Fariello Angela, nato a Corato (BA) il 20 agosto 1906, residente a Bari, celibe, impiegato privato, apolitico.
    Arrestato il 7 giugno 1940 per vociferazioni disfattiste e antifasciste e per intercettazioni di radiotrasmissioni da Londra e Parigi. Assegnato al confino per anni tre dalla CP di Bari con ord. del 10 luglio 1940. Sede di confino: Toro. Liberato il 12 novembre 1942 condizionalmente nella ricorrenza del ventennale. Periodo trascorso in carcere e al confino: anni due, mesi cinque, giorni 6.

Anche qui una breve chiosa: di Raffaele è rimasto proverbiale a Toro un curioso intercalare. Pare infatti che amasse ripetere “Là sta il trucco!”, e i toresi, imparando da lui: “Là sta u trucche!, djce (o decéve) Raffajèle”. Il quale Raffaele doveva essere un buontempone. Lo si ricorda, infatti, uscire in pantaloncini e canottiera quando pioveva e intabarrato in un trench, un impermeabile, con tanto di ombrello aperto, se c'era il sole (fonte Antonio Di Gironimo).

Notizie e testimonianze del perseguitato politico Emilio Sabbadini, ebreo, confinato a Toro per cinque anni, il quale successivamente all'8 settembre 1943 riparò in Svizzera da Tremezzo (CO), aiutato da un maresciallo dei carabinieri, che preavvisò lui e altri come lui dell'imminente arrivo dei tedeschi, si leggono in Renata Broggini, Terra d'asilo: i rifugiati italiani in Svizzera, 1943-1945, Il Mulino 1993.

Alla lista sono da aggiungere i confinati rimasti impressi nella memoria della nostra informatrice locale A.I., ultranovantenne (classe 1923), la quale godeva di un osservatorio privilegiato come proprietaria con i genitori di una bettola nella quale confluiva gran numero di avventori locali e forestieri. Tra i condannati al confino, una figura interessante era data da , un prete alto e magro, anch'egli come Raffaele ricordato per un suo detto. In confino per aver criticato Mussolini, se ne vantava, ripetendo : - L'ho detto, lo dico e lo ripeto! - che era il suo motto passato anch'esso a proverbio ("U so' djtte, u djche e u repète/ decève u prèute"). Ovviamente senza circostanziare l'oggetto del suo dire, per non aggravare la sua già critica posizione.

Confinato era anche un non meglio ricordato dottore, che viveva in compagnia dell'anziana madre in una casa presa in affitto in Piazza San Mercurio. Rispettato se non proprio benvoluto dalla popolazione al pari di tutti gli altri confinati, il dottore ha lasciato traccia nei ricordi paesani per l'abitudine di cantare a squrciagola un famoso canto da caserma, adattato alla sua situazione, e in un certo qual modo soggetto ad autocensura:
Macchinista, macchinista bello e grasso
metti l'olio allo stantuffo,
che di Toro sono stufo
e a Campobasso voglio tornar.
E i toresi sorridevano al sentirlo di Campobasso, sapendo che non era Campobasso dove voleva andare ma naturalmente a casa,

Sempre a Toro viveva una ragazza slava (per la precisione slovena) di nome Tania (o anche Tatiana) che dopo qualche tempo era stata raggiunta dal padre medico, confinato come la figlia. Abitavano in via Pozzillo, prima nella casa dei Serpone, poi nella casa attualmente abitata dai fratelli Domenica e Tonino Fabale. Tramite Giovanni Mario Caruso, alias Martenille, allora militare nella loro città d'origine, Lubiana, si scambiavano doni con una zia, che abitava in una villa, stando a quanto riferiva il soldato torese, il quale ogni volta si accontentava di restare al cancello, guardandosi bene dal mettere mai piede in casa, per timore di eventuali rappresaglie politiche nei suoi confronti. I due confinati, padre e figlia, sparirono nottetempo non appena appresa la notizia dell’arrivo dei tedeschi in paese. La ragazza si era confidata con un’amica, dicendo “Adesso sì che son guai per noi!”. E di loro non si è mai più saputo nulla.

Tra i confinati c'era inoltre un certo Italo, anch'egli abitante in Via Pozzillo, nella casa dei Serpone lasciata libera da Tatiana. entrato in dimestichezza e amicizia protrattasi anche dopo la caduta del fascismo, con Amedeo Lamenta, sarto, che era ritornato dal fronte con entrambi i piedi congelati e in seguito non faceva mistero delle sue simpatie socialiste, in un contesto, quale quello di Toro, egemonizzato dalla Democrazia Cristiana.

E ce n'erano altri ancora, tra cui un professore, o ritenuto tale, che si adattava a svolgere le funzioni più umili di garzone a servizio di Salvatore Ricella, alias Natale. allora commerciante e carrettiere (trainante, in torese). Si chiamava Giorgio (un altro confinante a servizio da Salvatore Natale. si chiamava Bruno). Giorgio e Bruno, quindi, ma Giorgio è meglio ricordato per un altro intercalare passato a proverbio. Quando il padrone lo spronava a lavorare con maggiore impegno, pare che rispondesse, tra il serio e lo scherzo: "E dai e dai. E Giorgio muore...". O per dirla proverbialmente alla torese, pronunciando Giorgia, ma ben sapendo che sempre di un maschio si tratta: "E dalle e dalle e Giorgia more!".



Toro, Piazza XXVIII Ottobre (Piazza del Piano), Cartolina. Stab. Pezzini Milano, 1940.
(Archivio Marilena e Cinzia Rossodivita)


All'elenco bisogna naturalmente aggiungere il confinato milanese, dal quale siamo partiti, e del quale finalmente raccontiamo l’aneddoto che lo vide protagonista una mattina, quando il giovane entrò nella cantina di Francesco Iacobacci, alias Jennarille, in via Pozzillo. Vi entrava abitualmente e vi era bene accolto perché educato e di modi garbati. Ma quella volta aveva l’aria sconvolta che colpì la giovane proprietaria (nostra fonte di informazione) e una giovane parente.

-Eh sì, disse l’uomo. Sono proprio arrabbiato, perché mai mi sarei aspettato di essere trattato in questo modo.

- Che vi è successo?

- Ma vi sembra possibile che una vostra compaesana, che io non conosco e non vi so dire chi sia, si sia messa a prendermi in giro, senza che io le avessi fatto niente per meritarlo?

- No, no. Non può essere. Deve esserci uno sbaglio...

- Sì, invece. Altroché. Sì è messa a prendermi in giro. Tirandosi dietro la pecora, diceva “Tè Milan. Tè Milan”. Avete capito? Dava della pecora a me, che sono di Milano, e me ne venivo per i fatti miei.

Le due ragazze rimasero interdette. Poi una delle due scoppio a ridere. E a ridere scoppiò anche l’altra. Avevano capito. E prima che il confinato potesse arrabbiarsi anche con loro, che gli stavano ridendo in faccia, glielo spiegarono:

- Ma che Milan e Milan. Quella donna non diceva Milan. Diceva “Melaé”. Diceva “Te Melaé”.

E storcevano ancora di più il dittongo finale, E chiarirono:

- Non ce l’aveva con te, ma con la pecora. Perché tutte le pecore di Toro noi le chiamiamo Melella, piccola mela. E perciò quando poi le chiamiamo, diciamo “Tè Melé. Te Melé”.

Il confinato milanese rimase confuso. Rifletté sul suono impossibile di quelle vocali in uso nel dialetto di quel paese, che tanto lo aveva colpito. Provò inutilmente a pronunciarlo a sua volta “Tè Melàa. Te Melàa”. E sembrò farsi capace perché aggiunse: “Sì, può essere”. Si tranquillizzò e accennò un mezzo sorriso alle ragazze che da parte loro avevano continuavato a sorridergli.

In seguito riuscì finanche a identificare la donna che del tutto involontariamente gli aveva guastato la mattinata, lasciandogli credere che lo stesse prendendo in giro mentre, invece, stava solo chiamando a sé la pecorella, la sua Melella. Era Anna Saveria Cutrone in Cefaratti, non ancora quarantenne. Più conosciuta allora e in seguito con il nome di Ze Saveria Scardalane,

______________

Bruno, il confinato ricordato in questo articolo a servizio di Salvatore Natale, l'abbiamo ritrovato in una cartolina in vendita su Ebay, che ci ha svelato una vicenda drammatica:
Clicca e leggila nell'articolo 1942. La storia dolorosa di una cartolina di un antifascista a ToroToroWeb, 19 dicembre 2020.
Postato il Lunedì, 12 marzo 2018 @ 23:00:00 di giovanni_mascia
 
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