TORO Web - Lo stemma con ancora e delfino dipinto nel 1726 nel chiostro di Toro
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Lo stemma con ancora e delfino dipinto nel 1726 nel chiostro di Toro
L'amico Stefano Vannozzi, che ringraziamo, ci ha inviato un articolo su uno stemma araldico riportato alla luce durante gli ultimi lavori di restauro cui sono state sottoposte le lunette del chiostro del convento di Toro. Un contributo, quello dell'amico Stefano, assai interessante non solo per le notizie inerenti lo stemma in parola e la famiglia torese di appartenenza, ma anche per tutta una serie di notizie e informazioni sul chiostro, sul convento e su altre famiglie, committenti dei lavori. Ancora grazie e complimenti.


A sinistra, lo stemma Boccaccio, a destra, la marca Aldina, in un accostamento proposto dall'autore



Lo stemma con ancora e delfino dipinto nel 1726 nel chiostro di S. Maria di Loreto
di Stefano Vannozzi

Il convento francescano di Toro può vantare uno dei più completi cicli pittorici regionali, a tema religioso, rielaborati e realizzati dalla mente di un pittore molisano. Sull’argomento negli ultimi anni Giovanni Mascia ha profuso pagine e pagine di documentata ricerca, che hanno ridato voce e identità all’artista, al ciclo pittorico e ai suoi committenti. La decorazione e l’illustrazione delle lunette del chiostro, realizzate intorno al 1726 da Bartolomeo Mastropietro (Cercemaggiore, 14.07.1675 – Toro, 01.09.1753), non senza aiuti e con la stretta collaborazione del nipote Felice Mastropietro, rappresentano una profusa teoria di medaglioni di papi, prelati, Santi e martirii francescani. Per usare le espressioni di padre Doroteo Forte: “dipinti complessi e vivaci che non denotano il crisma dell’arte, ma sono sempre un allettante libro aperto che anche l’analfabeta sa leggere con profitto”.

L’opera fu una grande occasione di visibilità pubblica per le famiglie dei committenti, appartenenti a quel diffuso notabilato di bassa estrazione sociale ma con ampie aspirazioni nobiliari e brama di elevazione sociale. Infatti, fra i dipinti, se si escludono il blasone dei Ceva Grimaldi – Mastrogiudice della Marchesa di Pietracatella e quelli religiosi dell’ordine francescano e dell’abate Tardioli, tutti gli altri emblemi vennero creati in loco, ex novo, traendo ispirazione dalla fonetica dei cognomi. Il pittore ricorse a simboli onnicomprensivi e semplici, elaborando una serie di stemmi necessariamente parlanti.

Ecco allora per Niccolò Caruso una forbice, un pettine e il profilo di una testa rasata, per Gaetano Laurelli un destrocherio (braccio destro) tenente un ramo di lauro, per don Giacomo Quicquaro il chiarore di un’alba, per mastro Antonio Carusella tre spighe legate di grano carosella, per Andrea Cermele di Sant’Elia a Pianisi un melo carico di frutti, per i fratelli Giuseppe e Antonio Trotta, figli di Domenico Mecatrotta di Ripalimosani, forse una trota (purtroppo lo stemma antico è stato distrutto e sostituito da una moderna e dubbia lastra marmorea). Per due famiglie, che già forse alzavano arma di distinta civiltà, le uniche ornate di elmo e svolazzi, si utilizzarono invece stemmi tratti da omonime famiglie napoletane; per Niccolò Rotonno le ruote di un carro, mentre per il dottore in legge Pietro Petrucci si adottò lo stemma di una famiglia Petrucci di Napoli estinta dalla fine del XV secolo.





Lo stemma che ci interessa ora più degli altri è però quello posto alla base della quinta lunetta del braccio sud, sotto la scena raffigurante l’incontro fra San Francesco d’Assisi e San Domenico che recita:
“Ò FORTVNATA CALLAROCA O ASSISI
CHE DVE PIETOSI EROI DONASTE AL MONDO
QVEI CHE A PRÒ DE’ FEDEL NON MAI DIVISI
DELLA CADENTE FÈ RESSERO IL PONDO”

e ancora “A DIVOT(ION)E DELLI S(IGNO)RI REV (ERENDI) D(ON) SALVATORE E / NOT(AIO) DOM(ENICO) BOCCACCI”.


La descrizione araldica dello stemma, recentemente restaurato, è: “D’argento, all’ancora aldina con delfino attorno e doppio anello alla sua sommità”.

Chi erano i danarosi committenti viene presto svelato da Mascia, il quale scrive che proprio “con il sacerdote Salvatore e il notaio Domenico Boccaccio, figli di Giambattista e Cristina Polito, si estinse nel Settecento l’antica famiglia torese che aveva ereditato nel cognome l’accenno alla bocca grande e sgraziata (magari nel senso metaforico di maldicente) di un antenato. Il sacerdote don Salvatore morì a 69 anni il 4 novembre 1755. Domenico, nato il 23 novembre 1688, morì il 5 agosto 1742”. Ma come comportarsi in questo caso con i Boccaccio senza cadere nel ridicolo dato che un pesce e un amo, potevano essere i temi iconografici che più si addicevano al cognome del casato? Mastropietro risolse nel modo più nobile possibile, trasformando un amo in ancora e il pesce in delfino, che, per quanto sia un mammifero, in araldica è indicato come il più nobile fra i pesci. Utilizzò quindi l’iconografia della famosa marca adottata per primo dal tipografo e grammatico Aldo Pio Manuzio (Bassiano, 1449/1452 – Venezia, 06.02.1515) per firmare le sue stampe diffuse in tutta Europa. Il celebre umanista aveva scelto questo emblema ricavandolo da un’antica moneta donatagli da Pietro Bembo, raffigurazione del celebre motto “festina lente”, traduzione latina di “σπευδε βραδεως” (spéude bradéos), un ossimoro che significa “affréttati lentamente”.

.
La citazione greca era attribuita da Svetonio all’imperatore Augusto nel II libro De Vita Caesarum (Vita di Augusto, 25, 4) e si usava ripetere quando si voleva esortare qualcuno ad agire presto, ma sempre con l’opportuna cautela. Sul senso del motto e dell’immagine Erasmo da Rotterdam ha scritto che possono essere applicati nei seguenti casi: “il primo quando vogliamo indicare che bisogna riflettere a lungo prima di iniziare un lavoro, ma, una volta presa una decisione, si deve portarlo a termine in fretta: e così l’ancora significa il tempo richiesto dalla riflessione, il delfino la rapidità dell’esecuzione. […] Un altro uso si ha quando vogliamo dire che le emozioni devono essere frenate dalla ragione. […] Un terzo quando vogliamo ammonire affinché nelle azioni intraprese si eviti una fretta sconsiderata, difetto connaturato in certe persone a cui ogni indugio, per quanto breve, sembra sempre inutile”. Mai considerazione è oggi più vera e attuale di quest’ultima!

Migliore raffigurazione non si poteva quindi trovare per un notaio e un sacerdote che quella simboleggiante appunto la velocità associata alla costanza e alla fermezza nelle decisioni.

Nella chiesa conventuale di Santa Maria di Loreto un’altra memoria araldica ci ricorda i Boccaccio. È forse una reminiscenza del nonno Domenico quella che appare nello stemma marmoreo di Caterina Ionno, figlia di Cristina Boccaccio e del notaio Giuseppe Ionno da San Giorgio La Molara, posto nell’altare eretto insieme al consorte don Nicola Angelo Trotta nel 1788[?]. Sembrerebbe proprio così a guardare l’emblema a rilievo che raffigura un pescatore in acqua, con la veste cinta e il copricapo, tenente con la sinistra alzata un’ancora, e un pesce in basso nell’altra. Da che mondo e mondo mi sembra che i pesci abbocchino all’esca sull’amo, se sono grandi si possono tuttalpiù arpionare o prendere con le reti, ma non si pescano di certo con l’ancora!
Postato il Martedì, 05 maggio 2020 @ 00:00:00 di giovanni_mascia
 
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