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Quando gli albanesi eravamo noi |
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Pubblichiamo due lettere scambiate appena tre o quattro decenni addietro, tra il marito emigrante e la moglie che restava a Toro con i figli. Crediamo che il dramma dell'emigrazione, delle famiglie smembrate, che molti di noi hanno vissuto sulla propria pelle si possa cogliere bene in questa semplice, modesta corrispondenza.
Cara moglie, io sto bene e così spero anche di voi tutti. Sono arrivato in questa nazione tanto ricca, ma io mi sento tanto povero in mezzo a gente sconosciuta, abito in una baracca con venti italiani. Questa nazione, ma sopratutto questa gente straniera, è molto diversa da noi, la pensa diversamente da noi. Non so parlare la loro lingua, mi vergogno pure ad andare a comprare il pane, perché come pronuncio una parola in inglese il negoziante si mette a ridere. L’aria è umida e irrespirabile, l’acqua non si può bere e quando la si beve è come bere la purga. Il lavoro è duro e faticoso, il boss non ci lascia neanche chiacchierare fra noi operai e appena qualcosa non gli va giù minaccia il licenziamento. Noi italiani non siamo ben visti. Solo a fine giornata, quando torno in baracca, molto stanco per la gran fatica, fra i miei amici italiani, riesco a ritrovare un po’ di serenità e di dignità. Stare lontano dai figli e da te, è la più dura delle condanne e la mia unica speranza è di riabbracciarvi presto nella terra dolce dove sono nato e cresciuto e che sento ora tanto lontana.
La nostra terra la sogno la notte, come si può sognare il paradiso, perché non faccio che pensare di ritornare nella mia terra. Ma devo dimenticare tutte le amarezze per ora, pensando che non posso tornare misero come sono partito, perciò, appena avrò messo da parte i soldi per costruire la casa e far studiare i figli, tornerò felice per riabbracciarvi con tutto l’affetto che sento per voi.
Cara moglie, mi manchi molto e la notte ti sento vicina, ma solo nei miei sogni.
Il tuo caro marito.”
Risposta della moglie:
Caro marito, noi stiamo tutti bene e così speriamo anche di te.
Appena sei andato via tu, questa casa è diventata diversa, è come fossimo a lutto, siamo molto rattristati per la tua assenza e il tuo posto vuoto a tavola ci fa soffrire ancora di più. Noi ti pensiamo sempre e preghiamo il Signore che ti faccia almeno stare bene in salute. Io non pensavo che questo nostro distacco mi avrebbe fatto soffrire tanto, se deve durare molti anni, è meglio che tu mi fai l’atto di richiamo, piuttosto che sentirmi come una vedova.
Io cerco di fare del mio meglio in campagna, ma certi lavori duri come arare coi muli, li può fare solo un uomo. I ragazzi mi aiutano, ma non voglio distrarli dagli studi che fanno con profitto. Dalle tue rimesse cerco di togliere quel poco che ci consente di vivere, oltre che impiegarli per le rette all’Istituto per i ragazzi. Tutto il resto lo metto alla Posta . Spero che anche senza di te la nostra campagna ci dia un buon raccolto quest’anno. Cerco di fare tutto da sola, perché farsi aiutare da un uomo è cosa malvista dalla gente, che subito chiacchiera.
Anch’io ti penso molto e ti desidero molto e non c’è notte che non ti sogni.
Insieme ai ragazzi, ti abbracciamo e ti mandiamo un grande bacio.
La tua cara moglie che ti vuole tanto bene".
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Postato il Giovedì, 25 giugno 2009 @ 16:23:46 di giovanni_mascia |
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