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Un omicidio che ha fatto epoca a Toro e posto fine alle razzie di bestiame
Nel dopoguerra i ladri di bestiame imperversavano nelle nostre campagne. Ci si difendeva come si poteva, anche con il banditore che avvisava e sfidava i ladri per conto dei padroni delle bestie. A San Giovanni in Galdo, per fortuna. non ci furono strascichi drammatici, anzi i bandi pare sollecitassero solo le risate dei paesani. A Toro, invece, il bando di sfida era stato seguito da un omicidio, che aveva lasciato vasta eco in paese, atterrendo sia la popolazione sia i ladri, la cui téppa, vista la mala parata, preferì girare al largo dalle nostre stalle, almeno per molti anni.


Anni Cinquanta del Novecento, Ernesto Treccani, Contadino con mulo


Giovanni Mascia
Dalla farsa di San Giovanni alla tragedia di Toro
Ladri di bestiame in azione nelle campagne molisane nel dopoguerra
(Il Quotidiano del Molise, 12 settembre 2017)

Il recente libro di Marilena Marino, … Da Castelluccio a San Giovanni in Galdo (2017), ha per oggetto appunti e scritti lasciati dal padre Michele su aneddoti, leggende, fatti e personaggi di storia patria. Tra l’altro vi è trascritta una lettera aperta, indirizzata nel dicembre 1952 al sindaco Michele Daniele, per invitarlo a contrastare i ladri di bestiame che imperversavano a San Giovanni. Nonostante la gravità dell’argomento, lo scritto, di tono semiserio, per non dire comico, insisteva con dettagli di colore sugli amministratori comunali, prima di soffermarsi su un bando, che aveva divertito la popolazione, e motivato la lettera aperta.

Una volta precisato che “Ogni volta che si ode la tromba dell’Araldo, tutti si affacciano alle finestre e balconi per sentire le novità”, Michele Marino annotava: “L’Araldo del Comune, seguito da un codazzo scherzoso di giovincelli e dal relativo sghignazzo di monelli che andava sempre aumentando, proclamava tromba in bocca e fiato alle corde vocali, che… un certo Tizio aveva comperato delle pecore che aveva allocato in una certa masseria sita in una certa contrada e si avvisavano perciò i ladri, ove avessero bisogno di pecore, di andarle a rubare lì in quel certo e preciso posto”. Seguiva l'aggiunta: “Naturalmente lo stesso padrone delle pecore seguiva l’araldo perché nessun vicolo fosse tralasciato e la notizia fosse diffusa anche nelle più lontane case alla periferia dell’abitato”. Dopo di che, ridendo ridendo, considerato il proliferare dei ladri in paese, Marino aggiungeva paradosso a paradosso, per suggerire al Sindaco di rimpinguare le casse comunali, obbligando i ladri a richiedere la licenza o la patente per esercitare legalmente quel mestiere.

Insomma, la situazione sangiovannara, di cui ignoriamo gli sviluppi, poteva anche essere grave, ma era dipinta con pennellate tutt’altro che serie, farsesche addirittura.

Un esito tragico, al contrario, aveva avuto il bando, che era stato gridato nella limitrofa Toro, qualche tempo prima. Ne era derivato il fattaccio risalente alla fine degli Anni Quaranta, la cui eco era continuata a risuonare durante tutta la mia infanzia. Ricordo che quando ci attardavamo a giocare tra le prime case del paese e la campagna immersa nel buio, c’era sempre qualche bontempone che cercava di spaventarci, gridando Ièssu ièsse a Menecangele! Eccolo, ecco Menicangelo! (i nomi da qui in avanti sono di fantasia, per non urtare la suscettibilità di nessuno).

Riuscisse o no nell'intento di impaurirci con la Paura, cioè il fantasma, certo è che un Menicangelo Tabbellone era stato ammazzato proprio lì. Ed essendo morto di morte violenta, senza avere avuto il tempo di confessarsi e pentirsi dei suoi peccati, lo spettro era condannato in eterno a vagare su quel prato, senza trovarvi mai pace.

Da vivo, questo Menicangelo passava per attaccabrighe. La voce popolare lo diceva affiliato di una banda di ladri che operava a Toro e dintorni. Fatto sta che quando a Cola il Fuoriterra rubarono il mulo, tutti i paesani – non solo la vittima – sospettarono di Menicangelo e dei suoi compagni. Ma con i sospetti non si va molto lontano. Così alcuni giorni dopo il contadino comprò un secondo mulo. E per sua ulteriore disgrazia, maturò l’idea strampalata di far gridare il bando per il paese. Tutù… Tutù… si udì suonare la trombetta del banditore. E subito dopo: Cole u Foreterre avvise a ttutte ‘a pupelazione ca z’ha rraccattate u mule! Perciò se ze vunne j’ a rrebbà pure a quisse, che ze mevessjne ca isse è pronte… Cola il Fuoriterra avvisa tutta la popolazione che s’è ricomprato un altro mulo. Perciò se vogliono andare a rubarsi anche quest’altra bestia, che si muovano ché lui è pronto!

A quel bando di sfida, ci fu chi abbozzò un sorriso amaro e chi scosse la testa: quella storia aveva preso una brutta piega. A sera nel dopolavoro, Cola non riuscì a levarselo di torno, e Menicangelo insisteva a importunarlo: Se mi paghi da bere, ti dico chi ti ha rubato il mulo! E a sghignazzare: Io lo so dove sta il tuo mulo. Cola decise perciò che era meglio andare via. Ma l’altro lo seguì fino a casa, alla Croce Pozzillo. Anzi, fino alla stalla adiacente, perché prima di rientrare in casa, Cola era passato a governare la bestia da poco acquistata. E Menicangelo sempre a tormentarlo. Addirittura, il suo spirito maligno e beffardo lo spinse a forzare la mandibola del mulo e, apertala, a sputargli in bocca e a sottolineare il gesto con una risata sguaiata.

Il rituale era stato fin troppo chiaro: in quel modo l’uomo aveva sancito con l’animale un patto di familiarità, perché si credeva che sputando in bocca a un mulo (o a un asino o a un cavallo), lo si affamiliasse, rendendolo docile e affezionato. Il messaggio implicito era altrettanto chiaro: Per stasera mi sono limitato a sputare e a entrare in confidenza con l’animale, così quando tornerò a rubarlo, anche lui come il primo non farà storie e mi seguirà docilmente.

Quella spacconata fu la sua condanna a morte. U Foreterre non resse più. Afferrato un bidente, si avventò sul provocatore che tentò di darsi alla fuga, ma fuori dalla stalla, fatti pochi passi, fu raggiunto e finito a bidentate in testa. E proprio lì, sul limitare dell’abitato, tra il marciapiedi e l’erba della campagna, all’alba del giorno dopo, fu trovato cadavere da alcune donnicciole che si recavano al Pozzo a Monte ad attingere l’acqua.

Inutile aggiungere che quella tragedia atterrì il paese, dove qualche paesano, ritenuto a torto o a ragione affiliato alla téppa, si rinchiuse in casa per mesi, e dove non si verificarono più furti di bestiame, al contrario di San Giovanni dove, come abbiamo visto, sul finire del ‘52 se ne continuavano a registrare. Benché sgomenta, la popolazione manifestò tutta la sua simpatia per l’omicida, Cola il Fuoriterra, il quale al processo godette delle attenuanti che le deposizioni concordi strapparono ai giudici. Scontò una decina di anni di carcere e fu libero. Più o meno il tempo che noi ragazzi impiegammo per dimenticarci dei racconti della fine cruenta di Menicangelo Tabbellone, e del suo fantasma dannato, che oramai nessuno dei nostri fratelli più piccoli evocava a sera, durante i giochi sul campicello, all’ingresso del paese.

_____________




Primo Novecento, Notabili di Toro a cavallo Sotto la Vecchia, località malfamata

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Postato il Mercoledì, 13 settembre 2017 @ 18:29:53 di giovanni_mascia
 
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Il drammatico fattaccio di Toro (Voto: 1)
di Giovanni Rossodivita (giovianniross159@gmail.com>) il Mercoledì, 20 settembre 2017 @ 15:04:48
(Info Utente )
Giova',
ricordo quell'alba tragica, le urla che risuonavano per la nostra via nuova: una cupa atmosfera da tragedia greca! Ma niente di più. (In quale anno è avvenuto ?).
Negli anni successivi, non ne ho sentito parlare molto tra gli anziani: come se quel tragico fattaccio fosse stato rimosso completamente!
Quello che ho notato, criticamente, (e ... quando mai!), che dal tuo racconto, un po' romanzato, traspare una certa inconsapevole "giustificazione" di quell'omicidio, perché avrebbe messo fine ai furti di bestiame a Toro ( il che, oltretutto, non è affatto vero!).
Ciao



A proposito del tragico fattaccio di settant'anni fa (Voto: 1)
di Giovanni Mascia il Mercoledì, 20 settembre 2017 @ 22:04:55
(Info Utente )
Giovanni Rossodivita,
mi dispiace che tu abbia trovato un po' romanzato il mio racconto del fattaccio che è avvenuto nel gennaio 1948. In verità mi sono limitato a registrare le versioni ascoltate da sempre dagli anziani, tutte concordi nel dipingere la vittima come persona dal carattere difficile e a ipotizzarlo affiliato alla teppa torese, sull'esistenza della quale le versioni concordano, e altrettanto concordi sono nell'alleggerire la posizione di Cola il Forestiero, per continuare a chiamarlo con uno pseudonino, non perché il fatto abbia portato alla fine dei furti, come dici tu e che pure ci fu, ma perché tutti riconobbero allora le forti provocazioni da lui subite. Soprattutto le riconobbero i giudici. Tanto è vero che il Forestiero fece pochi anni di carcere.
Nessun romanzo, dunque, ma fatti. Fu un fatto che alcuni della teppa si rintanarono in casa, all'indomani dell'omicidio, e non uscirono per mesi. Altro fatto che la teppa si sciolse o perlomeno non operò più. Può essere, come dici tu, che l'omicidio in un certo senso fu rimosso. Ma è la verità e non un romanzo che i nostri giochi na Croce Pezzjlle se si protraevano oltre l'imbrunire venivano interrotti sempre da qualcuno che si metteva a evocare lo spirito del morto ammazzato.
Del resto, se avessi voluto, ci sarebbe stato di che romanzare. A cominciare dall'età dei protagonisti, poco più che venticinquenne l'omicida e poco più che trentenne la vittima. E tutti e due sposati con figli. Ma non ho toccato queste corde patetiche.
Soprattutto ci sarebbe stato e c'è da considerare lo status di forestiero dell'omicida e di cittadino torese della vittima, Ci pensi se fosse accaduto ai giorni nostri, se un nostro concittadino fosse rimasto vittima di un extracomunitario dell'Est o addirittura di un nordafricano? Tu credi che noi e i nostri concittadini saremmo compatti oggi nella solidarietà al forestiero omicida, come si sono dimostrati e sono stati i toresi settant'anni fa?
Un caro saluto
Giovanni


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