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Quando i toresi bruciarono Catello (un fantastico poema inedito del 700)
Le nuove generazioni forse ignorano le gesta eroiche dei nostri antenati che per motivi oscuri bruciarono e distrussero Catello, il villaggio che sorgeva tra Toro, Monacilioni e Pietracatella. Un'epopea leggendaria, che può nutrirsi di nuova linfa grazie a un poema settecentesco inedito di Adriano De Sanctis, ritrovato nell'Archivio Parrocchiale. Ne fu data notizia giusto 25 anni fa, nel giugno 1988, sul settimanale «Molise Ogg». Chissà se oggi il fantastico documento è ancora al suo posto!


Stemma di Toro in una pergamena cinquecentesca
(Chiesa parrocchiale del Santissimo Salvatore)



                    A Michele Paternuosto
Per anni per una vita intera s’insegue un sogno. E quando si dispera ormai del successo, ecco spuntare dietro l’angolo ciò che così a lungo si è cercato. È storia vecchia. Perciò non voglio affliggere con triti luoghi comuni su caso e fortuna. Mi piace però far partecipe della gioia procuratami dal casuale rinvenimento, presso l’Archivio Parrocchiale di Toro, d’un manoscritto settecentesco. Era nascosto a foglio a foglio nelle copertine in cartapecora (tagliate dalla parte interna per farne delle cartelle segrete), d’una secentesca e monumentale raccolta di prediche, in quattro volumi, di fra Giovanni de Cupellis o.f.m. da Ripabottoni, dedicate a sua altezza Manuel de Acevedo y Zúñiga conte di Monterrey Viceré e Luogotenente Generale del Regno di Napoli.



Frontespizio delle prediche di Fra Giovanni de Cupellis
dedicate a Manuel de Acevedo y Zúñiga conte di Monterrey,
Viceré e Luogotenente Generale del Regno di Napoli


Quando avrò spiegato di che tratta, risulterà chiaro che si può guardare al manoscritto come a una miniera d’informazioni, qualche volta sorprendenti e in aperta contraddizione con quello che comunemente si accetta su usi, costumi, e vita in genere della regione che un tempo veniva chiamato Contado di Molise, con riferimenti di volta in volta su Agnone, Campobasso, gli Albanesi e altro ancora.

Il ricercatore di cose locali, considerato lo scarso apparato di documenti a disposizione, si è imbattuto, s’imbatte, o s’imbatterà prima o poi, in misteri e leggende che, per quanto frughi, o si dia da fare, difficilmente potrà chiarire o sfrondare dell’aria fantastica e sistemare nello spazio più degno, ma sicuramente meno suggestivo, della storia ufficiale. A Toro, per esempio, resistono ancora il mito di Adriano De Sanctis e la leggenda di Catello.

Di Adriano De Sanctis, geniale prete del luogo, come qualcuno l’ha definito, non si sa niente di più di quanto annotò Francesco Longano che, nel suo Viaggio per lo contado di Molise, lamentandosi della mancanza di scuole per la gran parte delle popolazioni delle nostre contrade, ebbe ad esclamare:
– Che sarebbe, dove avesse ciascuna come Toro un Adriano De Sanctis!



Uomo e donna in costumi tradizionali del paese di Carovilli, in Contado di Molise


In seguito chiunque ha trattato di Toro o di cultura molisana si è dovuto accontentare di citare, più o meno pappagallescamente tale esclamazione. Dalla morte del De Sanctis (1800 circa), non si sono succeduti invano due secoli, il terremoto micidiale del 1805 che atterrò Toro e vi causò la morte di quasi trecento anime, e l’ostracismo della gerarchia nei confronti d’un sacerdote in odore di eterodossia. Non pare inutile precisare, per esempio, che un don Luigi Ferrara, dotto arciprete di Volturara (FG), ma nativo di Toro, autore di un’apprezzata grammatica latina edita a Napoli intorno alla metà dell’Ottocento, in un suo zoppicante sonetto ha creduto bene di annoverare tra le glorie del suo paese uno stucchevole elenco di sconosciuti o misconosciuti sacerdoti e ignorare (volutamente?) il De Sanctis.

Sulla vita del quale, in verità, è stato compiuto un tentativo di fare luce. Una frequentatrice di archivi molisani ha spolverato scartafacci in casa Trotta e ne ha infarcito qualche pagina d’un libro. Ma il risultato è così generico, insignificante, che è meglio far finta che niente abbia scritto e andare avanti. E piombare nella leggenda.

Un modo di dire tipicamente torese, che invita a premunirsi in particolare circostanze, suona

Scappe Catille ca Ture t’ampoche!
(Scappa Catello che Toro t’infuoca! Ti brucia!)

Scappe Catello!, oppure Tite Catille, Tieniti Catello! con pari significato. Catello ritorna in un altro detto, che certifica non esserci più nulla da fare:

È chiúse Catille!
(È chiuso Catello!)

Di che si discute? Pare che per cause sconosciute fosse bruciato dai toresi il limitrofo casale (ossia villaggio senza mura di cinta) di Catello. Deludente l’esito delle indagini volte a scoprire i responsabili. I nostri compaesani, trincerati nell’omertà assoluta, avevano risposte sconcertanti per ogni domanda.
– Chi è stato?
Ed essi:
– Ieri sera ho mangiato fagioli…
– Avete visto qualcuno?
E con faccia tosta:
– Veramente volevamo mangiar patate, sennonché…
Non fu cavato un ragno dal buco. Né grandi risultati hanno conseguito i miei sforzi per aggiungere un minimo di riferimenti storici al leggendario incendio. Non sono andato più in là di qualche insignificante atto notarile di compravendita di terre in quel feudo ubicate.

Ma ecco la sorpresa. Il manoscritto rinvenuto nelle copertine in cartapecora del de Cupellis, con i suoi ottantatré fogli sciolti, compilati sul fronte e sul retro da una mano padrona di una scrittura minuta ma chiara, presenta sul frontespizio il titolo chilometrico: La Catelleide – ovvero la Guerra della Campana che portò alla combustione del Casale di Catello in Terra di Capitanata, cantata in versi alessandrini variamente rimati dal rev. Adriano De Santis [sic], Abate de Sancta Maria ad Rannole della Terra de Thoro in Comitato Molisii, della Regal Badia de Sancta Sophia di Benevento.

Ricompresa nel titolo è una bellissima allegoria del Toro che soggioga la Ninfa Acatilla, mitologica abitatrice delle acque fluviali. Catello sorgeva, infatti, al confluire del torrente Canale con il Fiumarello o per dirla con i versi del De Sanctis:

Laddove le acque fresche, limpide dei torrenti
Canale e Fiumarello dan ristoro alle genti,
c’era tra Moncilioni, Tuoro e Predicatiello
un villaggio leggiadro, che nomavan Catello,
lo abitavano poveri pastori e contadini
aveva sullo stemma il monte e il cagnolino…



Stemma di Catello disegnato da Adriano De Sanctis



Come si vede, il De Sanctis accoglie l’etimologia corrente che vuole Catello derivare dal latino Catellus, diminutivo di Catulus, a sua volta diminutivo di Catus, voce medievale che sta per gatto e dal gatto passato a designare ogni cucciolo di animale. La leggenda di fondazione del villaggio, spiega più avanti il poeta, racconta che furono i guaiti di un cagnolino a svegliare nottetempo i primi abitanti, e permettere loro di mettersi in salvo, mentre dal monte sovrastante precipitava un pesante cocuzzolo di fango e roccia.

Inutile dire che del vecchio stemma non abbiamo trovata traccia, a parte il bozzetto sopra riportato che impreziosisce le poetiche cartelle del De Sanctis, il quale esibendo anche doti di ottimo disegnatore, si è divertito a motteggiare la memoria degli antichi vicini, elevando il loro piccolo villaggio addirittura a città: Civitas Catellus, come si legge nella cornice dello scudo.


L’allegoria della copertina, con il motto che recita “Taurus submittit nympham Acatillam”, Toro soggioga la ninfa Acatilla, sembra, invece, uscita dal pennello di un artista dei tempi nostri, un Salvatore Fiume giusto per fare un nome, tant’è vivida e cruda.



Il frontespizio della Catelleide di Adriano De Sanctis.
Impressionanti i segni del tempo



In dieci scorrevoli canti di circa seicento versi l’uno, il De Sanctis, che apre il Poema con l’invocazione a Santa Lucia,

Diva siracusana, che per l’etterna luce
desti la luce umana e volasti al tuo Duce,


affinché lo preservi dall’errore, illuminandolo sulla strada del Vero, evoca una storia molto suggestiva che è presto detta in due parole. Tra i toresi e gli abitanti di Catello – Albanesi di Molise, chiamati nel XV secolo dal duca di Canzano e Monacilioni a popolare quel feudo – non corre buon sangue, perché temono i primi di perdere i secolari diritti di pascolo e di far legna, vantati sul feudo. La situazione precipita quando sulla strada di ritorno da Agnone, dove è stata rifusa, ignoti rubano l’antica campana di Toro, che si vuole portata dalla Terra Santa da Crociati del XIII secolo. Le ricerche dei toresi, legatissimi allo storico reperto, interessano tutti i comuni e le chiese del circondario, ma non hanno esito. Si brancola nel buio, finché un vecchio eremita non è visitato in sogno da San Mercurio.



Il vecchio eremita, visitato in sogno da San Mercurio



Il Santo Patrono di Toro, mosso a pietà dalle preghiere e dal digiuno del vecchio, indica nei catellesi gli autori del furto, rivelando altresì il luogo dove prudentemente hanno nascosto il sacro bronzo. Messi al corrente, i toresi, dopo mille peripezie, assalti, magie e sortilegi, riescono a recuperare la campana, a sterminare i sacrileghi ladri, e a incendiare Catello.

È chiúse Catille!

Fin qui la leggenda. Il De Sanctis la manipola per fini didascalici. Epigono degli enciclopedisti francesi (anche il verso alessandrino, al posto del tipico endecasillabo nostrano, lo comprova), allievo prediletto del Genovesi, non si abbandona tra le braccia della fantasia. Ma approfitta dell’impianto epico e fantastico per trasfondere e parafrasare nei suoi canti alcune dotte dissertazioni di molisani del tempo. Così, come egli stesso avverte di volta in volta con note a margine e di richiamo, per la fondazione di Catello versifica l’opuscolo Catello – seù gli Albanesi di Monacilione (sic) del rev. Arc. Gioacchino Ceuli, abate delle Sante Reparata e Benedetta; la rifusione della campana gli dà modo di parafrasare il 4° e 5° canto del Jardeno in fiore di Jacopo de Montis (XV secolo); mentre le indagini per le chiese del circondario altro non sono che la trasposizione ritmica de I tesori e le chiese della Libera città di Campobasso e d’intorni del canonico Gian Bartolomeo Palumbo (1650 - ?), dove già si accenna a “meravigliosi ingegni” (i Misteri?),

Che muovono a stupore dotti e cafoni e donne
vinti dallo splendore d’angeli e di madonne
assisi tra le nubi…

La fonte principale d’ispirazione, in special modo negli episodi magici e di fantasia, è data dal celebre trattato Delle meraviglie del mondo animale e sovranimale, con descrizione minuziosa di duecentodiciannove mostri ultraterreni di origine vaga, dell’Abate Andro (Andreo) Janantoni (1620 – 1662?), benedettino del convento di Morcone, che pare consultabile presso la locale biblioteca civica.



Un’illustrazione tratta dal celebre trattato dello Janantoni
sui “duecentodiciannove mostri ultraterreni di origine vaga”.



Il De Sanctis si compiace di attribuire il trionfo dei compaesani a una circostanza puntualmente ricordata dal monaco morconese. L’agro di Toro ospitava una bestia eccezionale che nidificava tra il colle di Dio e la chiesetta di San Rocco, il cosiddetto Derectus Alatus, volgarmente chiamato Culaperto, sorta di roditore volante simile al pipistrello, ma dotato di una dote singolarissima, che gli permetteva di dilatarsi a volontà, come la rana di Esopo, cibandosi d’aria e di complimenti adulatori. I toresi seppero farne buon uso, addomesticando più esemplari che riuscirono a cavalcare a mo’ d’ippogrifi,

[ma] ippogrifi osceni, chiamato Culaperti,
perché han le code erette sopra gli ani scoperti.

Né va taciuto, per malinteso amor patrio, che qualche volta lo sgonfiarsi improvviso dei Culaperti, dovuto a coraggiosi catellesi che vincendo il ribrezzo riuscivano a sostenerne gli sguardi raccapriccianti e a canzonarli per via del loro poco nobile nome, causò il tragicomico precipitare nelle acque gelide del Fiumarello degli avventurosi cavalieri toresi.

Ma altre e altre ancora le fonti d’ispirazione cui attinge il De Sanctis! E a tutte professa riconoscimento. Per quanto mi riguarda, la termino qui per non trasformare questo breve assaggio in un’arida tabella bibliografia. La Catelleide, insomma, è un poema fantastico e suggestivo sì, ma come dicevo anche un prezioso regesto, una guida a testi rari e ormai introvabili. Di sicuro, cercarli tra le scansie della biblioteca parrocchiale è fatica vana.





Il cardinale Carafa di Traetto, arcivescovo di Benevento, in visita pastorale a Toro nel 1846, vi dette ordine di bruciare una gran messe di suppellettili inutili e ingombranti. Le fiamme del falò furono alimentate anche dagli scritti del De Sanctis e dai libri un tempo a lui appartenuti? Chissà. Di sicuro la prudenza consigliava di bruciare gli scritti e i libri d’un sacerdote in odore d’eterodossia che, sembra, non accettasse nemmeno l’esistenza del Purgatorio.
                      Giovanni Mascia


Nota: Si prega di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons.
Postato il Martedì, 10 dicembre 2013 @ 23:00:00 di giovanni_mascia
 
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