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Mercoledì, 24 gennaio | · | Lutto, è deceduta Antonia Di Sabato |
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Giovedì, 18 gennaio | · | Lutto, è deceduta Maria Panichella di anni 90 |
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Venerdì, 22 dicembre | · | Lutto - Padre Giacinto De Sanctis |
Giovedì, 21 dicembre | · | Lutto, è deceduto Nicola Lamenta di anni 87 |
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Il 26 dicembre, Santo Stefano, si scannavano i maiali (Toro di una volta) |
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Il 26 dicembre, festa di Santo Stefano, ricorreva un appuntamento fondamentale dell’annata tradizionale torese. Era il giorno deputato al rito dell’uccisione dei maiali. Non c’era famiglia che non allevasse il suo maiale (per grande o piccolo che potesse essere). E a Santo Stefano lo immolava per riempire la dispensa, facendo risuonare le vie di Toro con una sinfonia di urla disperate.
Anni Sessanta. Santuccio Marcucci (du Gìúdece), intento a "spaccare" il maiale, insieme con il cognato Mercurio Fracasso (Mammarése) e ai genitori Carlo Antonio e Assuntina che mostra una matassa di budella (Archivio Elettronico Vincenzo Colledanchise).
Durante il pomeriggio del giorno prima, a Natale, le massaie che avevano tenuto a digiuno le vittime designate, avevano preparato la catasta di ceppe e streppúne e approntato la cuttóre piena d’acqua e i mille e uno recipienti e utensili da adoperare all’indomani. A loro volta, i macellai o i padroni di casa che si arrangiavano in proprio, avevano rispolverato i ferri del mestiere: l’uncino per arpionare il maiale alla gola, e la varia tipologia di coltelli atti al rito cruento.
La mattina di Santo Stefano, meglio se il clima era rigido e secco, le piccole fère, i ferúcce, i cjcche, i cecchetille, come affettuosamente erano chiamati dalle massaie che per mesi e mesi li avevano allevati, ingrassandoli con pastoni di vrénne (crusca) e crescendoli con gli occhi, erano stanati dalle rólle, e trascinati verso l’altare del sacrificio, la scala posta di traverso sul tinazzo rovesciato davanti all’uscio di casa (o del fondaco), dove il macellaio (o il proprietario), provvedeva a sgozzarlo con lo scannatúre, il coltello appuntito a mo’ di pugnale.
Squarciavano il silenzio del mattino le urla della bestia che si dibatteva tra un nugolo di volenterosi accorsi a tenerla ferma, aggrappandosi chi alle zampe, chi alla coda, chi agli orecchi. La padrona di casa raccoglieva i fiotti del sangue e provvedeva a rimestarlo di continuo nel paiolo per impedirne la coagulazione. Bollito successivamente con il mostocotto e condito con mandorle, noci e pinoli,quel sangue sarebbe diventato una crema nera e lucida come il vetriolo, da gustare spalmata sul pane a merenda, con il muso dei bimbi che si decorava di baffi e pizzetti.
Intanto, dato un ultimo strattone, la bestia esalava l’ultimo respiro, mentre dalla cuttore che borbottava, cominciava il via vai delle brocche con l’acqua bollente. Dopo averne irrorato a dovere la pelle, in una nuvola persistente di vapore, il macellaio ci poggiava sopra il coltello tenuto a due mani, per l’impugnatura e per la punta, e cominciava a pelarla, mentre a terra, lungo la strada, si ingrossava il rigagnolo d’acqua e sangue, setole, orina ed escrementi.
A pelatura finita ed estirpate le unghie dalle zampe, preventivamente immerse una dopo l'altra nella brocca d'acqua bollente, il macellaio incideva le zampe posteriori per infilare sotto l fascio di nervi e tendini le punte uncinate del “gammeglire”, un robusto ramo di quercia a forma di una “v” assai aperta, per mezzo del quale il maiale veniva issato a un uncino del soffitto e appeso a testa in giù, perché lo si potesse eviscerare al meglio, previo un taglio verticale, dall’inguine alla gola. Il taglio era preceduto dai beneauguranti “Sante Martjne” o “Alla salute”, cui i presenti rispondevano “Bommenúte” o “Prosit”. Era questo il momento di uno scherzo, sempre tentato ma quasi mai riuscito, ai danni dell’ingenuotto di turno, che era invitato ad andare a posizionarsi dietro il maiale e a reggergli la coda per tenerlo fermo e favorire il lavoro del macellaio. Il quale ne avrebbe approfittato per enucleare il sesso dell’animale (la cosiddetta “cella”), e senza reciderla dal nerbo catapultarla al di là delle zampe divaricate all’insù, in faccia al malcapitato reggicoda, tra le risate dei presenti. La stessa “cella” sarebbe stata messa poi ad essiccare sotto la cappa del camino e tornata utile per ungere le scarpe.
Come le fasi precedenti, anche l’eviscerazione era eseguita coram populi, subito dietro la porta della casa o del fondaco, che rimaneva aperta, di modo che i passanti e i curiosi, volendo, potessero seguire tutte le fasi del rito, previo la solita formula beneagurante del “Sante Martjne”, accolta sempre con il “Bommenúte” di prammatica.
Assai atteso il momento della pesatura, che avveniva grazie a una grossa stadera, assicurata allo stesso uncino del soffitto, alla quale era agganciato il maiale tramite l’osso sacro. E mentre sul braccio della stadera scorreva il marco alla ricerca del punto di equilibrio, si rincorrevano i pronostici dei presenti che li sparavano più o meno grossi, salvo pretendere a peso appurato, di averli ognuno azzeccati al grammo. - Con la buona salute! Con la buona salute!, - ringraziava la padrona, offrendo un bicchiere di vino agli amici.
La cerimonia prevedeva anche la visita del veterinario, chiamato, se non prima poi, a certificare e bollare con tanto di timbro sulle natiche rasate della bestia appesa, la regolarità della avvenuta macellazione. In cambio, si sarebbe portato via una fettina di fegato avvolto nella canonica "rezza", ufficialmente per i controlli medici di rito, in pratica per godere anche lui del Santo Stefano torese.
Dopo la pesatura, il macellaio provvedeva a incidere e a fendere verticalmente anche la schiena dell’animale, mettendo a nudo la consistenza del lardo, un tempo molto apprezzato, e favorendo la migliore frollatura della carne che veniva così lasciata a riposare per un paio di giorni. Solo il terzo giorno, infatti, sarebbe tornato di nuovo per “squartarlu”, e dare modo ai padroni di casa di “rezzelarlu”, preparando salsicce (grasse, di fegato e di carne), soppressate, lardo, 'nsógne, ceculjlle, ventresche, vrecculare, spalle, capeculle, prosciutti, gelatina e altro ancora per la grascia di casa. Perché, era risaputo il proverbio, secondo il quale “chi z’accjde ‘nu percille a quante a ‘na galljne/ n’ha besugne du vecjne”, (Chi si uccide un maiale, (sia pure grande) come una gallina/ non ha bisogno del vicino). E tutti cercavano di adeguarsi.
Giovanni Mascia
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Postato il Giovedì, 26 dicembre 2013 @ 13:57:21 di toroweb |
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