Un mestiere di una volta, il serparo (Toro che non c'è più)
Data: Saturday, 29 May 2010 @ 00:00:00
Argomento: Poesie e racconti


Se siI parla di incantatori di serpenti, il pensiero vola naturalmente in India alla testa triangolare del cobra che, ammaliata dal suono del flauto, fuoriesce dal panierino. C'è stato un tempo, invece, quando il ciarallo (così si chiamava l'incantatore abruzzese o molisano) era figura comune nelle fiere e nei mercati dei nostri paesi. Una figura millenaria, preromanica. Eccola in un ritratto, molto critico, di Luigi Alberto Trotta.



Andavano in giro certi sciatti perdigiorni, portando dietro le spalle una scatola serrata, attaccata ad una cigna, con dentro parecchi serpi. A suono di chiacchiere e con una goffa prosopopea, menando vanto di averle addomesticate e poste sotto la protezione di san Domenico da Cocullo nell’Aquilano, asserendo che le morsicature fossero innocue, che quei serpenti incantavano, aprivano il sozzo arnese e traevano fuori il serpajo, là accovacciato, e un fetore grave, di muschio, ammorbava l’aria e il girovago ozioso palpava e si avvolgeva al collo quei luridi rettili.

Io ne avevo orrore, sentivo nausea e ribrezzo di essi e del volgo credulo e tarpano che lo seguiva e gli dava spiccioli, avevo schifo. Si chiamavano ciaralli, ciaràuli, (pare abbiano comune la radice con ciarlatano, ciurmatore) e continuavano il mestiere degli psylli, di cui parlano gli scrittori latini e che dalla Marsica si recavano d’ogn’intorno. Non si veggono più da parecchio [N.d.R.: lo scritto è del 1913]. Era uno spettacolo indecente, un mestiere infimo e riprovevole.

Ve n’ha ancora di domatori; hanno sede stabile e qualcosa di civile che scema l’innata avversione per l’animale laido e pauroso anche se imitato e dipinto.

Luigi Alberto Trotta









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