La cappella di San Rocco
Data: Saturday, 13 August 2011 @ 15:00:00
Argomento: Toresi nel mondo


Nella imminenza della festività di San Rocco, presentiamo il racconto della fondazione leggendaria della piccola cappella torese, così come si legge nel romanzo L’unghia incarnita (Fratelli Conte, Napoli 1992), di Nicola Iacobacci (Toro 1935). Nell’economia del romanzo, la leggenda permette di decretare una poetica ma severa condanna dei tanti ricchi usurai di un tempo, che con l’ex voto pretendevano di riscattare la loro pessima vita. Permette, soprattutto, di delineare in modo suggestivo lo stato di miseria del paese, purificando nel linguaggio della favola alcuni significativi avvenimenti storici: la carestia dei primi anni dell'Ottocento e il terremoto del 1805. Inutile precisare che, in realtà, la cappella di San Rocco era stata edificata qualche secolo prima, tra fine Cinquecento e inizio Seicento.


Processione di San Rocco, Toro 16 agosto 2008


LA CAPPELLA DI SAN ROCCO

Viveva in paese in un grande palazzo fra tante case piccole e scure un signore ricco e potente. Appena il sole sorgeva, bagnava di luce l'ampia terrazza che correva intorno tra archi e ringhiere. E vasi di fiori e stucchi sulle cornici del tetto dove le rondini posavano il volo. C'era stato suo padre, in paese. E suo nonno. Nello stesso palazzo. Tra sete e broccati. E nespole fuori stagione.

C'era un signore. E uomini. E muli. Nei campi. Per la stanchezza del giorno. E il signore era sempre più ricco. E gli altri sempre più poveri. Povertà e ricchezza. Alberi che hanno in comune la stessa radice. Il ricco aveva ampi granai. E gli altri una madia con crusca e poca farina. E ghiande per la fame del giorno.

Non era una favola. Una semplice favola per tener buoni i bambini. A giugno cominciò la pioggia. Sottile. Caparbia. Nuvole. Vento. Il grano stentava a gonfiarsi nelle spighe appena formate. La primavera, gelida, continuava a mordersi la coda. Poi la stagione, improvvisa, portò il caldo afoso. I contadini sarchiavano il grano liberandolo dall'erba e dal loglio. Avevano una maglia di lana e un fazzoletto a scacchi intorno al collo per asciugarsi il sudore. E una ciotola di creta con un sorso di vino. E cantavano. Per vincere il caldo. E l'arsura. E una vita di stenti.

Ai primi di luglio il tempo indietreggiò come un cavallo imbizzarrito. Il cielo si era chiuso in un sudario grigio. Tornò il vento. E la pioggia. Un volo basso di corvi portò la tempesta. Tuoni. Lampi. E la pioggia si mischiò alla grandine. E la grandine al vento. Nei campi giacevano le spighe abbattute dai colpi di flagello. Il tempo non vede mai quel che succede. Passa. Come passano le tortore. O il sole sopra le montagne.

In autunno i contadini tornarono a zappare. Ma non c'era grano per la semina. Bastava che il signore ne desse un poco ad ognuno per vivere tutti in un mondo più giusto. Ma il signore era ricco perché gli altri erano poveri. E i poveri cambiarono la terra con il grano.

L'anno dopo, a luglio, un volo di corvi tornò sulla costa. E la terra tremò. E le case crollarono. Crollò anche il palazzo con l'ampia terrazza e gli stucchi e i vasi dei fiori.

Lo trovarono sotto una trave con un'ampia ferita al ginocchio.

Tre giorni durò il pianto in paese. Tre giorni e tre notti per i morti bruciati sopra cataste di legna. Anche sua figlia bruciò. Quando accesero il rogo sentì uno strappo violento come se gli avessero tolto una parte del corpo. Una costola. O il cuore. Per evitare contagi non si eressero tombe e sepolcri. Solo cenere e fuoco. E i cipressi a ricordo dei morti.

Il ricco smaniava. Dalla ferita violacea usciva il sangue in un flusso continuo. Cominciò la febbre. E il delirio. E vide San Rocco toccargli il ginocchio. E guarì. E in onore del santo edificò la cappella .

Nicola Iacobacci, L’unghia incarnita, Fratelli Conte, Napoli 1992, pp. 38-40.





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