Cherichetto al convento (Toro che non c'è più)
Data: Tuesday, 28 February 2012 @ 23:00:00
Argomento: Poesie e racconti


Vincenzo Colledanchise rievoca con molta passione i sentimenti e gli episodi legati a un passaggio fondamentale dell'infanzia negli anni Cinquanta, Sessanta del secolo scorso. L'esperienza da chierichetto. Che poteva maturare in chiesa o, come nel suo caso, in convento, verso cui gravitavano per lo più i ragazzi che abitavano pu Chiane Sammercurie o pa Vie du Cumminte, appunto...


Chierichetti in primo piano, con frati minori e il sacerdote don Giovanni SImonelli
in una processione a Toro nei primi anni Cinquanta.



Cinquanta anni fa e più, per quei ragazzi come me che abitavano lungo il viale che conduceva al convento, era impossibile non essere attratti dall’irresistibile richiamo di quell’affascinante luogo di culto abitato dalla piccola comunità di frati, non più di tre, con l’immancabile frate laico questuante.

Il convento non era particolarmente grande, munito di una serie di piccole disadorne celle che si intervallavano per ognuno dei quattro corridoi che, al primo piano, giravano intorno al chiostro. Nel piano terra vi era una grande cucina e una cantina e, di fronte, un refettorio col grande adiacente salone riservato per le grandi occasioni o messo a disposizione per il festeggiamento di qualche matrimonio. All'esterno vi era un grande orto e giardino, con due stalle, una a ridosso della cucina e l’altra che fungeva da pollaio e piccionaia, isolata presso il grande cipresso.

La vita che scandiva i giorni di quella comunità era semplice, dopo aver assolto agli impegni liturgici i frati si dedicavano allo studio o alla preghiera, ma anche all’intrattenimento e all’educazione dei ragazzi. I ragazzi più assidui partecipavano al coro per accompagnare melodiosamente le solenni novene, e nel contempo, facevano a turno i chierichetti.

Io indossai per la prima volta la cotta di chierichetto che ero molto piccolo e solo perché grazie a quel ruolo mi era consentito giocare a bigliardino o vedere la televisione, che quasi nessuno aveva in paese.

Per poter essere pronto a servire la prima messa delle sei del mattino, mi fu consentito a me e Gaetano di dormire in una delle celle vuote. Solo che ero troppo piccolo per resistere la prima notte, da solo, a sopportare le grida isteriche di un vecchio frate affetto da arteriosclerosi e, soprattutto, intimorito per la visione di un teschio posto sopra il comodino che l’oscurità del chiostro rendeva ancor più tetro. Raggiunsi poco dopo la cella di Gaetano e per alcuni anni dormimmo insieme in quella cella e insieme assolvevamo a tutte le numerose funzioni liturgiche. Il compito del chierichetto prima della riforma conciliare era importante perché non si limitava al puro servizio presso l’altare: era il solo preposto a recitare insieme all’officiante le formule liturgiche in latino, e dover salmodiare in quella lingua per me era un vero tormento.

Molto seguite erano le novene dell’Incoronata, e particolarmente di S. Antonio, con la relativa festa solenne di giugno, allorchè era un via vai frenetico di fedeli che si riversavano presso lo stupendo tusello di Fasciano ai cui piedi venivano poste le decine di ceste di panini benedetti da donare ai poveri. Curiosi era i mille manifesti che la Commissione dei festeggiamenti con a capo Martinangelo faceva affiggere per le vie del paese con la scritta : “W S. Antonio - abbasso i peccati”, "W S. Antonio - abbasso i bestemmiatori” ecc.

Con la Quaresima, io attendevo ansioso il pio esercizio della Via Crucis, quando fra noi chierichetti si lottava per portare la pesante croce o il turibolo o una candela del piccolo corteo che sostava presso le varie stazioni.

Ma nel periodo pasquale le funzioni erano particolarmente belle e, allorchè si “legavano le campane” ci si portava per le vie del paese ad annunciare le funzioni con la tritacca. Subito dopo Pasqua si accompagnava il padre guardiano per la benedizione delle case del viale del convento e per le masserie della campagna. Compito a volte arduo, quello di dover portare, per chilometri, con una mano il secchiello dell’acqua benedetta e nell’altra reggere il cesto delle uova che i contadini regalavano al frate, ma la fatica veniva ricompensata da dolci e liquori che ci venivano offerti in abbondanza dopo la benedizione delle abitazioni.

Ogni anno, di solito a primavera, la comunità si destava per accogliere la visita solenne del Padre Provinciale. Le araldine ripulivano tutte le aree del convento non soggette a clausura, mentre alcuni affezionati devoti approntavano un piccolo palco con poltrona dorata da dove avrebbe pronunciato il solenne discorso e impartita la benedizione l’illustre ospite.

Si accoglieva il Ministro Provinciale fin dalle prime case e processionalmente lo si accompagnava fino al convento spalancandogli il portone di ingresso. Un chierichetto con la gran croce era posto a capo del corteo, con uno stuolo di altri chierichetti, seguivano le araldine con il loro stendardo e poi le numerose terziarie francescane con altro stendardo con addosso lo scapolare e, infine, la comunità dei frati con una rappresentanza municipale.

Il Provinciale si fermava per tre giorni in convento per la sua visita alla comunità francescana. Una comunità che puntualmente ogni tre anni il Capitolo provinciale provvedeva a rinnovare e, allora, erano fiumi di pianti da parte delle bizzoche che si erano particolarmente affezionati ai frati e, penso che fosse lacerante anche da parte dei monaci separasi dai fedeli e affezionati devoti toresi.

Vincenzo Colledanchise





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