Musicanti, bandisti e ntille ntille (Toro che non c'è più)
Data: Thursday, 16 May 2013 @ 10:20:00
Argomento: Cultura


Ricordi, aspirazioni e dubbi di un ragazzino di mezzo secolo fa, alle prese con gli sfottò di un vecchio contadino giocherellone e gli apprezzamenti di un valente artigiano con la passione per la musica.





- Forza Giovà, c’u ntille ntille, ch’avéma fà i picinési!
- (Forza Giovanni con il dlin dlin, che dobbiamo fare i picinesi!).
Quel saluto, anzi quell’esortazione misteriosa, ogni tanto gli ritorna alla mente e con essa un sorriso che si affaccia sulle labbra. Intanto, scherzando scherzando, sono passati cinquant’anni ma non l’amore. La passione non s’è mai spenta, anche se la fiamma brucia adesso più tranquilla, assai più tranquilla. Quello che è strano è che non è stato nemmeno il primo amore, ma un ripiego, per giunta dettato da motivi economici.

Aveva undici o dodici anni e frequentava la scuola del maestro Di Fabio, Antonio Di Fabio da Castellino, un clarinettista, anzi un virtuoso del “Piccolo” in La bemolle: un orecchio eccezionale, che prima e dopo la seconda guerra mondiale aveva diretto la banda di Toro e una quindicina d’anni dopo, a metà Anni Sessanta, si ritrovava a insegnare i rudimenti della musica a una decina di figli e nipoti di quei contadini, i quali a distanza di due o tre anni dalla fine della guerra lo avevano piantato per andarsi a guadagnare più comodamente la vita in Venezuela, o altrove, comunque lontano dalle terre del Parco o del Vallo delle Canne. Qualche vecchio genis o clarinetto dimenticato era spuntato fuori (in proposito si legga Il volgare strumento dello scarparo), qualche fisarmonica pure, ma il ragazzo non aveva vecchi suonatori in famiglia, come, invece, qualcuno dei suoi compagni. Così un bel giorno il maestro Di Fabio si era presentato a casa sua con un sax contralto, nuovo fiammante, e aveva fatto rimbombare a festa la cucina con qualche scala, un arpeggio, l’aria di un vecchia canzone. Il ragazzo aveva gli occhi di fuori, ma i genitori no. Trentacinquemila lire erano un lusso che non potevano permettersi, visto che il padre doveva buttare il sangue tutti i giorni, anche quattordici o quindici ore al giorno in estate, le mattine delle domeniche comprese, per trenta mila lire al mese. Oggi sarebbero poco più di quindici euro, ma allora ci si viveva, poveramente ma ci si viveva. Così il maestro tenne il sax, nella scuola a pianterreno del municipio, a disposizione per pochi giorni, con la speranza che il ragazzo se ne innamorasse. E il ragazzo se ne innamorò. L’amore sbocciò, violento come tutti gli amori fugaci e senza futuro, mentre il sax se ne tornava al negozio di Campobasso, al legittimo proprietario che ne reclamava il possesso. Un amore disperato, cui, come spesso accade, di lì a qualche mese toccò la sorte di farsi da parte per lasciare spazio a un amore nuovo e più fortunato. La chitarra.

A un vecchio zio, che gli aveva chiesto, se gli avessero comprato una chitarra francese o battente, Giovanni non seppe cosa rispondere, perché erano parole che sentiva per la prima volta. Poi si fece animo e tirando a indovinare disse che gli avevano comprato una chitarra battente, perché pensava di suonarla, anzi strimpellarla, perciò “batterla”, solo per accompagnare il canto e gli altri strumenti. In verità, era poco più di una scatola di compensato verniciato: una Eko afona, sconsolatamente afona, che però aveva l’enorme pregio di essere costata solo, si fa per dire, otto mila lire. Nota dopo nota, un accordo alla volta, il maestro Di Fabio, seppe fare in modo di incuriosire il ragazzo e la chitarra divenne un’amica prima, l’amante dopo. Un’amante che poteva essere tenuta in braccio e accarezzata, senza procurare fastidio eccessivo alle orecchie dei familiari e meno che meno dei vicini di casa.

Solo chi aveva l’orecchio fino, ne avvertiva il suono. Come Cola, un vecchio contadino, che se avesse potuto avrebbe preso in giro anche Cristo e la Madonna:
- Forza Giovà c’u ntille ntille, ch’avéma fà i picinési!
Era il saluto affettuoso e oscuro, che Cola gli faceva arrivare attraverso la finestra o la porta socchiusa, ogni qualvolta col bel tempo si trovava a passare davanti casa, per andare al Pozzo a Monte o a casa della sorella Maria, e lo sentiva armeggiare. Giovanni non capiva che cosa fossero questi picinési, ma potevano essere anche piccianési, o ticcianési e continuava a suonare, ntille, ntille, ntille.
- Forza Giovà!
Quando poi avveniva di incontrarsi per strada, allora l’esclamazione di saluto era questa: Ah quella chitarra! quella chitarra! E al ragazzino bastava per farsi rosso rosso, senza avere il coraggio nemmeno di rispondere niente al vecchio simpaticone.

* * *


Oltre a Cola, poteva contare su un secondo estimatore: un falegname assai apprezzato, che grazie alla tecnica eccellente poteva ambire (e ambiva, altro che se ambiva) al titolo di mobiliere. Minguccio era un patito della musica, e un vero intenditore. A casa sua, in piazza, la radio era sempre sintonizzata sul terzo programma, e concerti, sinfonie ed opere ne erompevano perennemente. Il suo idolo era Schubert, e quando capitava, lo ascoltava con le lacrime agli occhi. Aveva un buonissimo eloquio, preciso e forbito, anche se segnato da una leggera balbuzie, forse dovuta al carattere irritabile.

Una volta dal barbiere s’intrattenne a riferire della buona fortuna avuta da un suo parente in America, dove aveva impiantato un fabbrica di profumi… Però non solo profumi – precisava– ma anche creme, saponi. C’è una parola per dire tutte queste cose insieme. E la cercava, quella parola. Con disappunto, rammaricandosi di non ricordarla e che nessuno dei presenti gliela ricordasse. Niente da fare. Finì di radersi, pagò e andò via alquanto irritato. Per tornare qualche minuto dopo, affacciarsi sorridente sulla porta, dire “Cosmesi!”, ai presenti, alcuni dei quali interdetti perché appena arrivati, e andare via di nuovo senza aggiungere né sentirsi rispondere altro.

Era la notte di Capodanno, quando spalancava le porte di casa per accogliere il frastuono del bufù, che Minguccio tributava il suo apprezzamento al giovane chitarrista, tenendogli riservata la sedia accanto alla sua. Ora, solo chi ha avuto la fortuna di vivere tra le quattro mura delle vecchie cucine di una volta il fragore assordante dei tromboni suonati dai fratelli Mazzarino, Nicolino e Nino (dal popolo chiamati Cacchione), accompagnati dal basso tuba di Carmine Iacobacci, meglio ricordarto come Scivecchio, e da fisarmoniche, bufù e bassa musica di vario genere, può immaginare che cosa possa essere una baraonda infernale. Per tutti gli altri sfortunati, basterà evocare il boato di uno stadio al momento del gol. Ebbene, proprio in tale circostanza, Minguccio si beava in particolare della chitarra che il ragazzo oltremodo imbarazzato gli suonava accanto, apportando un contributo sonoro pressoché nullo, tanto più che per andare incontro al gusto raffinato del padrone di casa addirittura arpeggiava, stando dietro ai fratelli trombonisti che ci davano dentro con Chiudi gli occhi Rosita (canzone tango) o Chi gettò la luna nel rio (e chi la gettò)?

A distanza di quasi mezzo secolo, le belle figure di Minguccio Santillo e Cola Pantalone sono tornate alla mente di chi finalmente ha trovato una risposta alla curiosità che si portava dietro da ragazzo. È successo per caso, qualche mattinata fa, all’Archivio di Stato di Campobasso, sfogliando un manoscritto vecchio di un centinaio d’anni, dove è riportata la seguente annotazione:
    Tingh e tingh. Così il popolino chiama i Viggianesi che vengono a suonar l’arpa nella festa del Protettore. Li tingh e tingh una volta venivano a frotte, ed era bello a (sic) sentire la loro musica, con suono di violino, e accompagnati dall’acciarino – un filo di acciaio piegato a triangolo. Essi cantavano tante belle canzoni, e ricevevano sempre di cuore un soldo o un bicchiere di vino quando si presentavano a suonare avanti la casa. Ora di Viggianesi se ne vedono di rado, con più sicuro guadagno vanno a rallegrare i lontani lidi di America. È un’altra poesia finita.(*)

Vengono a suonar l’arpa nella festa del Protettore.., con suono di violino, e accompagnati dall’acciarino ...


Leggere e vedersi chiarire i termini precisi dell’antico saluto di Cola che chiamava Ntille ntille quelli che a Castelbottaccio erano stati chiamati i Tingh e tingh, e chissà come negli altri borghi del Molise, e Picinesi i Viggianesi, gli ha procurato un vivo piacere. Ha ripensato ai bandisti di Toro che nel secondo dopoguerra avevano attraversato l’oceano, come i musicanti di Viggiano di cinquanta/sessanta anni prima, in cerca di un più sicuro guadagno. Ha sorriso all’idea che in altri tempi e in altri luoghi, o forse solo in sogno, avrebbe potuto girare il mondo insieme al vecchio contadino e bere insieme a lui un bicchiere di vino. E con altrettanto piacere ha affidato alla carta questi ricordi, per concedersi la possibilità di annunciare la sua gioia coram populo, proprio come aveva fatto Minguccio con gli astanti della barberia di Piazza del Piano, quando si era finalmente ricordato della parola “cosmesi” così puntigliosamente cercata.

                    Giovanni Mascia
(*) Vincenzo De Lisio, Appunti e note per il Dizionario della Lingua parlata in Castelbottaccio col ricordo di alquante notizie del paese, Due quaderni manoscritti, I A/N, II O/Z, presso Biblioteca dell’Archivio di Stato di Campobasso, ad vocem.



Con più sicuro guadagno vanno a rallegrare i lontani lidi di America...


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