Terremoti e culto della personalità nelle lapidi della chiesa di Toro/ 2
Data: Wednesday, 25 February 2015 @ 00:00:00 Argomento: Monumenti
Seconda puntata. La lapide del portale che ricorda il terremoto del 26 luglio 1805. Un dramma collettivo difficile da immaginare nella sua tragica portata: l'intero paese raso al suolo, una novantina di feriti e poco meno di 300 morti. La chiesa del Santissimo Salvatore ed il campanile distrutti fin dalle fondamenta. Per ricostruire la chiesa occorsero 23 anni, e addirittura 89 anni, quasi un secolo, per completare il campanile.
Toro, Facciata della chiesa parrocchiale (Google Maps)
Le peripezie che portarono alla ricostruzione della chiesa costituiscono una pagina lunga e dolorosissima della tormentata storia di Toro, che il 26 luglio 1805 era stato raso al suolo dal terremoto. Su una popolazione di 2369 anime, si contarono 274 morti e 88 feriti, come riportato in un volume edito a pochi mesi dal sisma che aveva abbattuto decine e decine di villaggi molisani provocando ovunque distruzioni e morti: 5274 vittime in totale su una popolazione di scarsi 90mila abitanti.
Giuseppe Saverio Poli, Memoria del tremuoto de’ 26 luglio del corrente anno 1805, Napoli 1806, p. 128 Riepilogo dei morti e dei feriti a Toro e in altri comuni del Molise.
Si legge in un rapporto del 1814 che, passati i primi momenti di desolazione, i superstiti che nei 274 toresi periti sotto le macerie del terremoto avevano perso genitori, coniugi, figli, fratelli, congiunti, ed erano rimasti senza casa, dal momento che il paese intero era stato distrutto, avevano incominciato a ricostruirsi qualche tugurio, qualche pagliaio, allargando per forza di cose lo storico recinto murario dell'abitato. Né avevano dimenticato la chiesa, ad essi tanto cara e necessaria. Tanto più che la chiesa, secondo l'uso del tempo, fungeva anche da cimitero, ed era rimasto impraticabile sotto quella montagna di pietre, vietando di fatto di seppellire degnamente i loro cari.
Dall'altare, che avevano provvisoriamente eretto in campagna, il parroco li aveva esortati a voce e con l'esempio ed essi avevano risposto con buona volontà, materiale, denaro e manodopera. L’arcivescovo di Benevento rinunciò ad emolumenti di sua spettanza e il Comune fu costretto ad attivarsi. Ben presto erano stati ricostruiti in buona parte il campanile e una spaziosa sacrestia, dove si era collocato un altare per esercitarvi provvisoriamente il culto divino. Quindi man mano erano stati eretti due muri laterali e due colonne.
Questo lodevole fervore popolare era andato purtroppo affievolendosi. Lo sterile e franoso tenimento comunale non assicurava ai cittadini le necessarie risorse, soprattutto dopo le grandi spese sostenute per la ricostruzione delle abitazioni e il riacquisto dei mobili, per poveri che possano essere stati. Le prestazioni di manodopera e denaro erano cessate. L'opera fin lì eseguita rischiava di deteriorare. Si era così pensato di provvedere con gli avanzi dei bilanci comunali e di diverse ricche cappelle (confraternite), un tempo erette nella chiesa crollata, e con il ricavato della vendita di un terreno comunale adibito a immondezzaio e di un fondaco diruto, pure di proprietà comunale. La spesa prevista ammontava a circa 12.300 lire, mentre le risorse sopra indicate avrebbero dovuto assicurare una buona copertura per iniziare.
Francesco Fagnani,
Pianta chiesa parrocchiale di Toro e schizzo altari laterali, 1819 già in Giovanni Mascia,
La chiesa del Santissimo Salvatore a Toro, Edizioni Lampo, Campobasso 1997
(Archivio di Stato di Campobasso)
I lavori furono dati in appalto nel mese di luglio dello stesso anno 1814 al muratore Francesco Fagnani (Pescopennataro 1760 - Oratino 1830). Il progetto prevedeva una costruzione sensibilmente più grande della precedente. Il Fagnani fu nel caso specifico ingegnere e architetto, come dimostrano le le piante da lui firmate. La popolazione, ritrovando il fervore iniziale, ancora una volta fornì gratis la manodopera.
Ma i lavori proseguirono lentamente, tra mille difficoltà. L'entusiasmo si spense e venne meno la manodopera. La miseria si accordava male con l'entusiasmo e con la generosità. Cominciò a farsi largo lo scoramento, tanto più che il Fagnani, povero a sua volta, non aveva denaro da anticipare nella costruzione e per pagare gli aiutanti.
Tra mille peripezie, dovettero passare molti anni e arrivare al 1825 prima che la situazione finalmente si sbloccasse, grazie all'iniziativa e all'intraprendenza del nuovo parroco, Pasquale Carusella di Toro. Mancando il rustico della chiesa ancora della facciata anteriore, il parroco comunicava all'Intendente la sua risoluzione di fare nominare dal Decurionato (Consiglio Comunale) due persone probe che si portassero sulle aie in tempo di trebbiatura e di vendemmia per raccogliere le libere sovvenzioni dei cittadini in cereali e mosto.
Firma e timbro arcipretale del parroco Carusella in un documento del 1826
Da buon osservatore della realtà basata su un'agricoltura povera che, bersagliata da continue carestie, assicurava un reddito di pura sussistenza, l'arciprete sapeva che poteva contare sulla carità cittadina solo negli euforici momenti del raccolto. Da parte sua rinunciava al compenso per la predicazione quaresimale che era l'uscita annuale più onerosa che il comune allora si accollava.
La sua idea ebbe successo.
Esattamente tre anni dopo, il 18 ottobre 1828, il muratore tuttofare Francesco Fagnani, poté finalmente comunicare all'Intendente di Molise di avere completato il rustico della chiesa di Toro nel settembre di quell'anno.
Il grandioso avvenimento, per il quale si era aspettato quasi un quarto di secolo, fu salutato dai potenti rintocchi della nuova campana, per l'occasione fusa a Toro dai Marinelli di Agnone, e immortalato nella lapide incastonata sopra il bel portale d'ingresso della chiesa.
Toro, portale della chiesa parrocchiale, con la lapide che ricorda il terremoto del 1805 e la successiva ricostruzione (Foto Vincenzo Colledanchise)
L'iscrizione ricordava ai posteri il crollo della chiesa, causato dalla forza immane del terremoto del 1805, e la magnifica ricostruzione che, scongiurando un ulteriore detrimento del culto divino, era stata portata a termine nel 1828, grazie ai contributi e alla devozione dei cittadini.
Toro, Portale della chiesa del Santissimo Salvatore, Lapide 1828 (Foto Sergio De Vivo) Da notare come a distanza di due secoli, solo tre caratteri abbiano perso il piombo
Una lapide esemplare nel suo classico periodare latino. Non sappiamo chi l'abbia dettata e non importa, essendo allora il nostro paese pieno di buoni latinisti, laici e religiosi. Importa sottolineare, invece, il significato: l'affidare la nuova costruzione a Dio Ottimo e Massimo (D.O.M.), riconoscendo ogni merito dell'opera alla fattiva devozione dei cittadini. Di tutti indistintamente: dei poveri, che si erano sacrificati con le loro braccia, dei benestanti che avevano contribuito con il denaro e con i prodotti della terra, cereali, vino e olio. Nessun contributo dal governo né dalla curia beneventana, per quanto l'arcivescovo come già detto, aveva rinunciato a riscuotere le decime per diverse annualità. Perciò nessuna menzione particolare. E meno che meno per il pastore che aveva provveduto a riconsacrarla. Solo l'encomiabile devozione della popolazione torese, nella sua globalità, meritava di essere tramandata ai posteri. In eterno.
Al riguardo, i documenti conservano traccia di un buon uomo, che aveva subordinato l'offerta di 50 ducati in cambio di una lapide che lo ricordasse come benefattore. Non la ottenne. L'Intendente, saggiamente, rispose che era già tanto se il suo nome fosse conservato in quel carteggio. Dove noi lo lasciamo nell'anonimato.
Noi posteri oggi sappiamo che la chiesa appartiene alla popolazione tutta, perché ricostruita sulle ossa e sulla polvere degli antenati che vi erano stati sepolti nei secoli passati, e ricostruita grazie al sudore e ai sacrifici dei discendenti che dopo il terremoto erano rimasti spogli di tutto, salvando con la vita solo gli occhi per piangere. Ricordiamolo sempre. Ricordiamolo tutti. A cominciare dai quei religiosi e quei laici che pensano di poterne disporre come padroni, per finire tra quanti, per un malinteso senso di laicismo, ritengono di non averne parte. La chiesa è nostra, di tutti noi. Anche la loro.
(Liberamente tratto da Giovanni Mascia, La chiesa del Santissimo Salvatore a Toro, Edizioni Lampo, Campobasso 1997)
(Continua)
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