Mazzate da cecate a San Mercurio, ovvero "I trisce sò pazze!"
Data: Wednesday, 25 November 2015 @ 00:00:00
Argomento: Poesie e racconti


In occasione del 25 novembre, festa liturgica di San Mercurio, raccontiamo un episodio relativo ai festeggiamenti di oltre un secolo fa, a un 26 agosto 1903 (o forse 1904), ricorrenza religiosa e civile di San Mercurio patrono di Toro. L'episodio, che è rimasto memorabile, vide animatamente coinvolti quattro toresi reduci della battaglia di Adua in Etiopia (1896), quasi tutta la popolazione di Toro e i bandisti della Banda di San Giovanni in Galdo.



Vecchia cartolina con immagini della Statua e della Processione di San Mercurio a Toro
(Raccolta Vincenzo Colledanchise)



Mazzate da cecate a San Mercurio, ovvero "I trisce sò pazze!"
(Botte da orbi a San Mercurio, ovvero "I toresi sono pazzi!">


Della tragica spedizione coloniale in Africa di Crispi, naufragata dopo il massacro di Adua (1896), facevano parte quattro toresi, quattro poveri contadini che grazie alla intercessione di San Mercurio scamparono alla carneficina. Così poterono tornare a ringraziare il santo protettore, e furono accolti in paese come eroi. Racconta Antonio Di Gironimo, che è il nostro prezioso informatore, che in verità solo tre dei quattro della spedizione fecero ritorno a Toro, non prima però di una altra ulteriore prova assai dolorosa: la prigionia che era seguita alla battaglia. Antonio ricorda solo il cognome di essi; un Mancini, un Pifalo e un Evangelista del ramo dei De Carle. Del quarto reduce, invece, Salvatore Felice, del ramo dei Cavalire, non si seppe più nulla e fu dato per disperso.



.Soldati italiani fatti prigionieri ad Adua (Internet)


In realtà, anche lui era riuscito a salvarsi. Nel più orribile dei modi: rimasto nascosto sotto una cumulo di commilitoni morti, aveva potuto scansare le baionette che gli etiopi avevano continuato a infilzare nelle pance degli italiani caduti in battaglia, per essere certi che non lasciassero nessuno di loro vivo. Solo quando gli zoccoli della cavalleria nemica si furono allontanati e il silenzio era tornato a imperare sulla distesa di cadaveri, il povero Salvatore si decise a mettere fuori la testa. Sangue, putrefazione e morte dappertutto. S’incamminò, ma intorno a sé non vedeva che una distesa senza fine di un territorio arido e pietroso. Finalmente arrivò in un piccolo villaggio di capanne di paglia e fango,

Alla visione del uomo bianco in stracci, che aveva le mani in alto in segno di resa e la faccia e il resto completamente ricoperti di sangue raggrumato, le donne del villaggio scapparono terrorizzate a rinchiudersi nelle capanne, mentre i loro uomini si avvicinavano con circospezione. Il sopravvissuto fece segno di aver sete, e fu dissetato. Fece segno di aver fame e fu sfamato (con una porzione di favucce, precisa Antonio). Favucce che gli furono offerte, come l’acqua, in una zucca essiccata che faceva da piatto e da bicchiere. Salvatore Felice entrò definitivamente nelle grazie degli indigeni quando si accorse che quelli zappavano il terreno (zappavano, per modo di dire), con gran fatica e senza grossi risultato, aiutandosi solo con uno spezzone di spada o scimitarra. Allora ne condusse un gruppo là dove erano i resti dell’accampamento del suo reggimento trucidato. Vi trovò, come aveva sperato, qualche pala che mise a disposizione degli uomini del villaggio, i quali presero a trattarlo come un benefattore, accudendolo con ogni riguardo. Dal canto suo, il torese si trovò così bene in mezzo a loro, che solo dopo sette anni gli venne il dubbio che la guerra fosse finita ed era arrivato il momento di ritornare Italia. Al più vicino consolato italiano, presso cui finalmente si era rivolto, fu rivestito da capo a piedi e rispedito a casa, in una curiosa divisa da ascaro, forse sopravanzata alla battaglia di sette anni prima.



Foto di ascari in assetto di guerra


Sbarcato a Bari, con pantaloncini corti, camicia e tanto di fez rosso infiocchettato in testa, Salvatore Felice prese il treno e scese a San Severo. Da lì si avviò a piedi, a marcia forzata verso Toro. I luoghi non gli erano ignoti del tutto, essendo stato da ragazzo a mietere in Puglia. Perciò non lo spaventarono i cinquanta e più chilometri che, in linea d’aria, lo separavano dalla moglie e dalla figlia, che aveva lasciata bambina di tre anni, moglie e figlia che non vedeva e delle quali non aveva notizie da sette anni.

Dopo diverse ore di cammino, il buio e la stanchezza lo sorpresero nelle campagne di Pietracatella, e dovette pernottare in un pagliaio. Era ancora notte quando si rimise in viaggio, per arrivare a Toro di buon ora. Nell’incerta luce antelucana, cominciò a riconoscere il profilo del paese, del campanile che aveva visto completare proprio prima di partire soldato… Alla Piana dei Sonno, vide venire verso di lui un manipolo di femminelle che andavano in campagna con le minellucce in testa. Imbarazzate e curiose come se le ricordava, lo sbirciavano da sopra il lembo del fazzolettone che si erano tirate sul viso. Chissà cosa pensavano a vederlo vestito come una specie di bianco bersagliere in mutande. In mezzo a loro anche la la figlia che era diventata una signorinella e la moglie, che non resse all’emozione di rivedere il marito creduto morto e svenne.



... Alla Piana dei Sonno, vide venire verso di lui un manipolo di femminelle
che andavano in campagna con le minellucce in testa...



Salvatore Felice fu abbracciato da tutto il paese e dai tre commilitoni che erano rientrati a casa sette anni prima. Naturalmente anche a lui, reduce come gli altri tre, fu offerto il posto di riguardo, accanto alle autorità. Accadde in chiesa durante la messa cantata e per le vie dell’abitato, durante l’imponente processione del Santo Patrono, San Mercurio martire, soldato romano, alla quale partecipava allora tutta la popolazione che sfiorava le tremila unità. Per la Via del convento, la statua fu sistemata sopra un tavolino, in attesa che il fuochista desse fuoco ai mortai e alla batteria posizionati lungo la costa del convento.



L’imponente processione del Santo Patrono di Toro, San Mercurio martire,
alla quale partecipava allora tutta la popolazione che sfiorava le tremila unità



Non si sa chi dei quattro fu il primo a dare fuoco alle polemiche. Fatto sta che i colpi a salve della festa, richiamarono alla mente dei quattro reduci le fucilate e i colpi dei cannoni della battaglia e riaprirono vecchie ferite. Ognuno dei quattro finì per addossare ai reggimenti degli altri tre le colpe principali della disfatta. Così dalla parole si passò alle offese, dalle offese agli spintoni, dagli spintoni agli schiaffi, ai pugni ai calci. Parenti e amici, accorsi in aiuto, anziché provare a sedare la rissa, si sentirono autorizzati a dare man forte all’uno contro gli altri, aiutati a loro volta da parenti e amici che facevano altrettanto. Così, nel giro di altri due o tre spari, tutti gli uomini di Toro, presenti alla processione furono in un modo o in un altro coinvolti nella grandiosa scazzottatura generale, mentre i bambini piangevano, le donne strillavano, e le granate continuavano ad annunciare ai paesi limitrofi la gioia dei toresi in festa per il loro Santo Patrono.



Una storica formazione della Banda di San Giovanni in Galdo.
La foto (cortesia di Stefano Trotta), è stata scatta nel 1922, una ventina di anni dopo la vicenda narrata



Vista la mala parata, i bandisti di San Giovanni in Galdo, che avevano animato la processione, decisero che era meglio mettersi in salvo, loro e i loro strumenti, e si diedero alla fuga precipitosa a valle del sopportico che allora metteva in collegamento il viale del Convento con la campagna sottostante e, oggi, con le strade e le case di via Fontanelle. Ma si accorsero che, in mezzo a loro, il suonatore di grancassa si trovava a mal partito per il terreno ripido e pieno di pietre, di pallottoli e di cantoni, reso particolarmente infido e scivoloso per via del canalone di scolo delle acque piovane e luride e maleodoranti. Come se non bastasse l'impaccio della grancassa scomoda e voluminosa che si portava a tracolla, il poveretto era anche piccolo di statura, panciuto e con i piedi piatti. Così a imperituro ricordo di quella memorabile processione di San Mercurio, mentre i toresi continuavano a scambiarsi mazzate alla scurdata, è rimasta l’esortazione dei bandisti di San Giovanni in Galdo al collega che rischiava di ruzzolare a ogni passo:

- Scappa Geditte, ca quisse, i trisce, sò ppazze!


Importanti cimeli della gloriosa Banda di San Giovanni in Galdo,
in esposizione permanente presso la sede della Società Operaia.
In primo piano la grancassa di
Geditte?
(Foto cortesemente messa a disposizione da Stefano Trotta)



POSTILLA.
Che i toresi siano davvero pazzi è tutto da dimostrare. Nel caso narrato, il giudizio parve giustificato. Difficile dirlo giusto in generale. Se non altro, per la facile replica a disposizione degli stessi Cape salate toresi nei confronti dei Recchie lunghe sangiovannari, appoggiata al detto antico, "Da che pulpito viene la predica!" o se si preferisce uno più gagliardo e popolare: "Il bue chiama cornuto all'asino!". Ai lettori l'ardua sentenza. Per quanto ci riguarda, ce ne teniamo fuori perché la rivalità campanilistica tra Toro e San Giovanni è ancora più antica dei proverbi citati, e a volerci mettere le mani si rischia di non uscirne più.


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