Il tesoro di Giotto, un antico sagrestano torese (Racconto di Natale/ 1)
Data: Wednesday, 23 December 2015 @ 11:07:06 Argomento: Poesie e racconti
Con gli auguri più affettuosi per gli amici toresi vicini e lontani, pubblichiamo tra oggi e domani, la vigilia, un dittico di racconti di Natale. Ecco il primo, Il tesoro di Giotto tutto giocato su personaggi, documenti e vicende vere, e su leggende tradizionali di Toro che vanno a comporre una favola agrodolce, che si spera non dispiaccia.
Buon Natale e Felice Anno Nuovo a tutti!
Caravaggio, Natività con l’Angelo della Santa Grotta e Santi, Olio su tela (Inizio Seicento)
Il tesoro di Giotto (o dell’Angelo Della Santagrotta)
Davanti a un ceppo acceso, la notte di Natale, in compagnia di vecchi libri
I - Quella notte era notte di chiasso. Più che a dire rosari e paternostri, tutti pensavano a sgranocchiare fave e ceci aschiati, e castagne; i più fortunati mandarini e portogalli; i ricchi le cupete del papa e della regina, senza curarsi delle bucce e dei cartocci buttati sul pavimento, su cui erano seduti, o inginocchiati, tanto c’era chi poi avrebbe ramazzato. Quando si sentì uno scalpitio come per l’irrompere di una mandria di cavalli, don Pasquale, già pronto con i paramenti della festa, non ce la fece più e rivolto al vecchierello che armeggiava con il braciere: – Guagliò, disse, affacciati a vedere che succede! Il sagrestano non riuscì nemmeno a rizzarsi in piedi, che un’orda di scalmanati irruppe in sagrestia, poggiando un fagotto di lana sul velluto del tavolo. – E questo che è?, chiese l’arciprete, mentre sollevava i lembi della coperta e scopriva il neonato addormentato. La folla rispose e a gran fatica si capiva che diceva: – Gesù Cristo! Gesù Cristo! – Sì sì, Gesù Bambino…, bofonchiò l’arciprete. – Vostra Signoria non vorrà che diventi un lupo mannaro? – Vabbè, vabbè. Mò vediamo… Ma adesso fuori, ché facciamo nascere il Bambino e battezziamo questa creatura.
II – “Circa le ore 5 della notte di Natale dell’anno milleottocentoventitre, da più cittadini fu ritrovato un infante disteso su l’ultimo gradino della Chiesa Matrice di questa Terra sotto il titolo del Santissimo Salvatore. Si stava il detto infante proietto, o sia esposto, nato da genitori incerti, fasciato con cuffia e cappaturo di lino, con colaturo di lana tinta a color torchino, e con fascia anche di lino. Avutone avviso io sottoscritto subito spiegai il portone della Chiesa, notificandolo al Sig. D. Mercurio M. Sindaco di questa Magnifica Comune, presente in chiesa per essere notte di Natale, che sanza mora convocò Carmina F. di questa detta Terra, anch’essa in chiesa, per farlo poppare e nutrire, eligendola per nutrice, come donna attenta, ubertosa di latte, e di buon latte. Dopo di che io sottoscritto Arciprete ho battezzato l’infante suddetto da incerti genitori con la condizione si no es baptizatus, e gli ho posto nome Angelo Della Santagrotta, facendo da compadre il Sig. D. Domenico Antonio T. e da comare la Signora Elisabetta I. e dopo gli ho appeso al collo una marca di piombo sostenuto da filo di seta a color verde come il tutto si rileverà dal libro dei Battezzati f. 100 a tergo n. 52. Ed in fede. Parrocchia del Santissimo Salvatore, Natale 1823”. Dopo aver riletto l’attestato per il cancelliere comunale, l’arciprete posò il foglio sulla colonnetta, si aggiustò la papalina, soffiò sulla candela e finalmente chiuse gli occhi.
III – Non riusciva a raccapezzarsi. Nel caldo della controra si era addormentato, ed ora l’arciprete gli storpiava il nome, chiamandolo Giotto, e gli chiedeva se era stato lui, “il nostro Giotto”, a dipingere la pecora sul sasso con il carbone. Sì, era stato lui, il proietto battezzato nella notte di natale di sette anni prima con il nome di Angelo Della Santagrotta perché non crescesse lupo mannaro, da tutti poi conosciuto come ‘Ngillotto il garzone di Ciccillo. Certo che era stato lui. E per convincerlo, accanto alla pecora, disegnò un prete e un bambino che disegnava un prete. La sera stessa, l’arciprete andò in casa del pastore per convenire che, al prezzo di cinque ducati, avrebbe tenuto con sé il ragazzo, perché sveglio e intelligente com’era, meritava di imparare a leggere e scrivere. Intanto avrebbe aiutato quel vecchierello del sagrestano che davvero non ce la faceva più.
IV – Giotto in ginocchio teneva sulle gambe accavallate di don Pasquale un quadernuccio, e, ripetendo appresso a lui le parole che accompagnavano i segni, si faceva la croce: – Santa Croce, mitteme a llegge e ‘mparà… L’arciprete dava allora al bambino una tiratina di orecchi, perché stesse attento e, additando col dito una dopo l’altra le lettere dell’Abbeccè, domandava: – Come si chiama la prima lettera della Santa Croce? E il ragazzo, forse, presagendo le pene che avrebbe incontrato nel fare il primo passo lungo la Via Crucis, ripeteva l’a con un’aspirazione dolorosa:– Ha! – Come fa la pecora? E Giotto: – Be. – E la mezza luna? – Ce. – E la trippa rivutata? De. – E la cecatella? – Ie. – E la mazza tagliata? – Eff. Il guaio fu che si dimostrò meno sveglio e intelligente di quanto il prete sperasse. Imparò a chiamare quei segni per nome, ma non gli riuscì in nessun modo né allora né mai di collegarli tra di loro per farne sillabe e meno che meno parole. Insomma non imparò né a scrivere né a leggere. Anche perché a quei segni non associava i suoni ma sempre e solo gli oggetti da disegnare, meglio, si capisce, e con più particolari. Così la ge, anzi la nge, erano gli occhiali che il maestro aveva sopra il naso, con le stanghette sulle orecchie… L’acca, la siggilella, la sediolina su cui quello era seduto, e la cappa la cornacchia con l’uovo che mamma Carminella gli aveva impastato una volta a Pasqua. Visti vani i suoi sforzi, don Pasquale si rassegnò. Da aiutante sagrestano, promosse Giotto a sagrestano, e ne ebbe un sostegno prezioso, soprattutto per ridipingere porte, finestre, scranni e confessionali e ritoccare statue e tele degli altari.
V – Crescendo, Giotto si mostrò irrequieto. Non era contento della papalina di sagrestano in testa. E ripeteva a se stesso: – Quell’Angelo santo prima o poi dovrà indicare anche a me la grotta dove troverò il tesoro che mi arricchirà e mi farà felice. Accadde, invece, che non lui ma un Francisco Calicagni qualsiasi, zappando nel campo dei Laurelli nel Largo della Liscia, scoprisse tomoli e tomoli di monete antiche sepolte, d’oro e d’argento. Al saperlo arricchito, dopo aver venduto le monete a libbre e a rotoli ai forestieri accorsi da lontano, finanche da Napoli, Giotto prese a smaniare sempre più. Sognava ad occhi aperti tornesi e marenghi e scudi d’oro, e ripeteva: – L’angelo mi indicherà la strada.
VI – Finalmente l’angelo gli apparve in sogno. E nel sogno gli indicava il sole che a mezzogiorno della vigilia di Natale si intrufolava tra le campane del campanile per proseguire e illuminare con i suoi raggi il selciato sottostante, a trenta-quaranta passi dalla base del barbacane. Per Giotto non ci furono dubbi. L’angelo gli aveva indicato la strada. Ma il Natale era ancora lontano. E fino a quel giorno gli toccò smaniare e continuare a sospirare: – Angelo della santa grotta! Angelo santo!
VII – Come Dio volle, i giorni passarono e arrivò la vigilia di Natale. Senza sole, con iI cielo ammantato da una nuvolaglia scura. Ma non disperò: – Angelo della santa grotta, pensaci tu! E l’angelo fece il miracolo. A mezzogiorno un sole d’oro fece capolino tra le campane, per posarsi su quattro grosse pietre del selciato a trenta passi dal barbacane. Giotto in preda ad un eccitazione incontenibile si inginocchiò e con il carbone disegnò sulle pietre baciate dal raggio di sole un piccolo presepe con la capanna, la sacra famiglia e l’angelo che mostrava la capanna. I paesani si divertirono a vederlo disegnare. Lo avevano visto disegnare da sempre. Lo videro disegnare anche quella vigilia di Natale, e il presepe era venuto davvero bene.
A mezzogiorno un sole d’oro fece capolino tra le campane...
VIII – Come Dio volle, anche quella notte nacque il Bambino, tra le fave e i ceci aschiati, e le castagne, e il profumo di mandarini e portogalli, e le cupete del papa e della regina. Finita la messa, dopo aver ramazzato alla bene e meglio le bucce e i cartocci unti disseminati sul pavimento della chiesa, Giotto con una zappa e un tizzone acceso raggiunse il presepe di carbone e, mentre tutto il paese dormiva, rimosse le quattro pietre, scavò e con il cuore in subbuglio rinvenne una cassa di legno, pesantissima. La tirò fuori, ricompose in qualche modo il selciato, si caricò la cassa in spalla e se ne tornò a casa, nella stanzuccia addossata alla chiesa.
IX – Una volta dentro, non resse alla curiosità: sollevò il coperchio della cassa e vide quello che non aveva mai pensato di trovare: una grossa pietra. La disperazione fu di breve durata. Sulla pietra scoprì una incisione, ma non seppe decifrare la scritta, che stava lì, sicuramente a indicare la strada per il tesoro. A furia di siggilelle, cornacchie, cecatelle, puntilli, mazze del mastro e peparuoli, la ricopiò con il carbone sopra un cencio e andò a dormire ch’era quasi mattutino.
X – Davanti al selciato manomesso, lo speziale fu il primo cha a Natale a mattina mangiò la foglia. Dando il buon Natale al notaio Petrucci, accennò alle quattro pietre e si fece una risata: – Stanotte Giotto ha trovato il tesoro! In breve, tutto il paese fu al corrente della novità. E in chiesa il sagrestano, ebbe il suo da fare per negare. – Ma che tesoro e tesoro! andava ripetendo mentre il viso gli diventava di fuoco.
XI – Non si sa come, venne fuori la storia della cassa con la pietra e i ragazzi a sghignazzare dietro al sagrestano. – Giotto ha trovato il tesoro, Giotto ha trovato il tesoro! E Giotto a ringhiare dietro ai ragazzi: – Il tesoro della fessa di màmmeta! E i ragazzi a tirargli una pietra: – Prendi Giotto, guarda che bel marengo d’oro. E lui a bestemmiare. E un’altra pietra: – Eccoti un altro tornese. E giù un’altra bestemmia.
XII – Passarono gli anni, anni di pietre e di bestemmie, e un bel giorno, come Dio volle, Giotto morì. Povero come era sempre vissuto. Nella stanzuccia adiacente alla chiesa i compaesani non trovarono nessuna pietra incisa, ma solo un cencio tutto istoriato a carboncino. La scritta diceva: – Questo è il tesoro dell’Angelo Della Santagrotta. O qualcosa del genere. Del resto sono passati tanti anni. Tutto è ormai sfumato tra le pagine di vecchi libri, nel dormiveglia, davanti al ceppo di Natale.
Toro, Natale 2015 Giovanni Mascia
N.B. Il racconto è stato pubblicato in contemporanea sul "Quotidiano del Molise" di oggi 23 dicembre 2015
Clicca qui per vedere le foto del sole tra le campane del Campanile di Toro
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