Domenicuccio Serpone. Un ricordo
Data: Saturday, 08 October 2016 @ 01:00:00
Argomento: Ultimo saluto


Siamo stati amici di infanzia e di adolescenza. Abbiamo condiviso cose belle e brutte, in un tempo in cui i giorni passavano più lenti, seduti in gruppo a giocare o a fantasticare sui gradini di Calata Pozzillo, o sul lisciato della casa paterna, o a sera sul muretto del Convento, che allora spaziava libero sulla vallata. Come spaziavano i nostri sogni...


Pasquetta di fine anni Sessanta al Fiumarello di Nicola Colledanchse (Archivio G. Mascia),

Domenicuccio Serpone è il primo da destra.poi Giovanni Mascia, Tonino Fabale, Mercurio Iacobucci, Lucio Carolla, Ludovico Cutrone e Antonio Parziale. In alto Martinangelo Ferrara e Salvatore Cutrone a fare gli aeroplanini. Sdraiato in primo piano Peppe Parziale (bar)



Caro Domenicuccio,
anzi Demenecúcce, come ti ho sempre chiamato e come ti chiamavano da ragazzo tutti a Toro, a cominciare dai tuoi genitori e dai tuoi fratelli. Demenecúcce, con tutta una sfilza di e mute e, a risuonare, solo la u torese, turbata, come in San Mercúrie . A chiamarti Mimmo, o Domenico, non ci sono riuscito, anzi non ci ho provato mai. Forse perché ricordo, e lo ricordavi anche tu, di certo, l’effetto curioso che ci faceva Peppone Fracasso, lo zio di Pasquale e Cosmo Evangelista, che tornando da Milano, ti chiamava con accento lumbard, Domenichino.

Demenecúcce, dunque. Il primo ricordo nitido è del 1961, tra i banchi di scuola, di una terza elementare, in un aula immensa, al secondo piano del municipio vecchio, lo storico municipio di Toro, ex palazzo Magno, inagibile dal terremoto. Anzi ricordo che eravamo assiepati attorno alla cattedra del maestro Paoletti che, tra una lisciata di baffi e l’altra con tanto di pettine e specchietto, stava disegnando per noi dei cartoncini grigiastri, formato cartolina postale. In un riquadro c’erano già stampati due cerchi e, ispirato da questi, il maestro abbozzava delle scene da spedire per un concorso scolastico a nome, ognuna, di noi alunni. In quella che sarebbe dovuto essere il mio disegno, il maestro fece diventare i due cerchi il sole e uno dei pianeti del sistema solare; ma la meraviglia di noi tutti fu quando in un’altra scheda vedemmo trasformati i cerchi in due scudi sorretti da due guerrieri greci o romani, che combattevano con tanto di spada, corazza ed elmo. Ovviamente quel duello vinse il concorso e il premio lo vincesti tu, perché il maestro Paoletti aveva deciso di spedire quel disegno a tuo nome. Noi altri non ne fummo gelosi. Del resto, non potevamo esserlo: tu all’epoca eri piuttosto piccolo e armato di un sorriso buono.

Un sorriso buono. E triste, forse perché i tuoi genitori facevano la spola tra la casa di Calata Pozzillo e il Venezuela, dove vivevano in pianta stabile i tuoi fratelli più grandi Giacinto e Antonio e Luigi, e non sempre ti portavano con loro. Dal Venezuela dovevano essere arrivate a casa tua montagne di lettere, dalle quali ritagliavi e mi regalavi i francobolli più belli e colorati e uno in particolare è rimasto indelebile nella memoria: enorme come non ne avevo mai visti, raffigurava la famosa battaglia di Carabobo, trionfale per Simon Bolivar. Regalavi, senza contropartita. Per il piacere di regalare. Te ne ricordi? Te l’ ho chiesto pochi mesi fa, in uno striminzito scambio di messaggini. E tu laconico come tuo solito: - Si, mi ricordo. Senza aggiungere altro. Ma io voglio immaginare che, mentre armeggiavi per scrivere e mandarmi quel messaggio, avessi atteggiata la bocca al sorriso.

Forse anche per via dei capelli rossi, molti mi scambiavano per uno dei tuoi fratelli e mi chiamavano Nicola (quanta gente da ragazzo mi ha chiamato Nicola). E se non mi giravo e non davo retta, loro a insistere: - Ma tu non sei figlio a Cola Giacinto?

Dal Venezuela, da Cola Giacinto, tuo padre, o dai tuoi fratelli, ti arrivavano anche cioccolata e gomme americane di cui, grazie sempre alla tua generosità. assaggiavamo il tipico gusto alla cannella. E ti arrivava anche qualche novità assoluta per quei tempi, come un paio di racchette da tennis, con le quali non avendo a disposizione un campo, né immaginandolo del resto, giocavamo in mezzo alla strada nell’unico modo che conoscevano, trattando le racchette come fossero due tamburelli, meravigliati però dalla velocità e dalla lunghezza della traiettoria che imprimevamo alla palla: da un capo all’altro della strada, dalla Croce Pozzillo a Mmiz’u Chiane, tanto allora di macchine se ne vedevano pochissime in circolazione.

Non lo so se ti arrivasse pure dal Venezuela o lo avesse acquistato in Italia tuo fratello Luigi, che nel frattempo era ritornato a Toro, fatto sta che avevi anche un giradischi, l’unico in mezzo a noi, e quel giradischi cominciò a fare da sottofondo alle nostre prime inquietudini di adolescenti quattordici-quindicenni. Quando, di tanto in tanto, ti era possibile acquistare qualche nuovo disco, ne venivamo informati tutti (allora ci capitava di incontrarci a casa di Vincenzo Colledanchise, una sorta di club giovanile all’epoca, visto che vi viveva senza i genitori che erano in Germania. e dal canto suo era l’unico tra di noi a possedere una macchina fotografica). Di quei dischi, tre titoli mi sono rimasti impressi, di stile e valore assai diseguali: il primo dei Rokes, sebbene i tuoi gruppi preferiti (allora si chiamavano complessi) erano i Beach Boys di Barbara Ann e Good Vibrations e, soprattutto, i Creedence Clearwater Revival. I Rokes, con Shel Shapiro, storpiavano col quel marcato accento inglese una serie di versi impossibili:

Se ti fanno un po' soffrire
perdonali perché
non sanno cosa fanno
io soffro come te
Se il tuo sorriso triste
non li ha convinti mai
tu non li devi odiare
perdonali se puoi
qualcuno deve amare
e lo faremo noi.

prima di scandire One, Two, Three, Four ed esplodere nel ritornello:

Sha la la la la la
Piangi con me
Sha la la la la la
Piangi con me.

Di questa canzone, di cui oggi mi colpisce il verso che fa riferimento al "tuo sorriso triste", ti piaceva in modo particolare l’introduzione con la chitarra e ne eri contento quando strimpellando riuscivo a rifarla anch’io. Un altro disco memorabile fu Noi non ci saremo dei Nomadi, e dopo aver scoperto il rithm'n blues, di cui diventasti un cultore, l'immortale The dock of bay di Otis Redding, quella con il fischio, che anche grazie alla pubblicità televisiva torna ciclicamente alla ribalta, come in questi giorni.

Un po’ di musica e calcio. Non avevamo molto altro. Nonostante la statura, ti scopristi doti da portiere. In effetti il coraggio e lo scatto non ti mancavano. Né ti mancavano la grinta e, nonostante la tua mitezza, il temperamento. Nei primi anni Settanta, in tempi di forte entusiasmo popolare per la neo fondata Hermes Toro e il campo sportivo, ricavato nel fondo della tua famiglia a Caranille (Colle Ranello), resta indimenticabile una sfida con il Campobasso Calcio. Amichevole, sia chiaro, in occasione di un San Mercurio. Arbitrava l’allenatore dei rossoblu campobassani, l’italo argentino Landolfi, e per quanto ne provassero non riuscirono a violare la porta da te difesa. Tanto che Landolfi, per non rientrare in città con lo scorno un pareggio con una squadra come la nostra, non ricordo allora se di terza o di seconda categoria, comunque una bellissima squadra, inventò un rigore a pochi minuti dalla fine. Tu che le ingiustizie non le sopportavi, ti concedesti per la prima volta una uscita plateale e lo mandasti a gran voce a quel paese, tra lo sconcerto e gli applausi di centinaia di toresi che erano venuti al campo sportivo. Purtroppo ne seguì l’espulsione di rito. Ti sostituì in porta Salvatore Cutrone (Parapille) che giocava da stopper, perché all’epoca non erano permesse sostituzioni dalla panchina, ma non gli riuscì di parare il rigore. Gol e di lì a pochi minuti il fischio finale. Così l'onore del Campobasso fu indecorosamente salvo, e quella partita la perdemmo ingiustamente.

Come ingiustamente e, stupidamente mi viene di dire, un poco alla volta si sono allentati, divenendo inesistenti, i nostri rapporti, una volta sposati. Un saluto ogni tanto per strada. Tanto per dire, ignoro quando e perché nel frattempo da Demenecúcce tu sia diventato Mimmo. Ma a parte il nome non ti ho visto mai cambiato, sempre sorridente a bordo del tuo inseparabile motorino. E sorridente, l’ultima volta, poche settimane fa, con in braccio la tua nipotina.

Per fortuna, a fine 2015, ho avuto il piacere di mangiare una pizza insieme a te. Ai nostri tempi non si usava. Insieme a te, come una volta a fianco a fianco, e insieme agli amici e ai ragazzi più giovani, con i quali ci eravamo ritrovati nella palestra di Toro, in una partita di calcetto in memoria di un altro amico di allora, Carluccio Marcucci. Non lo so tu, ma personalmente non avevo mai giocato a calcetto ed erano almeno quarant’anni che non tiravo un calcio al pallone. Naturalmente a tavola non ho potuto non ricordare la partita famosa, eccitando la curiosità dei tanti, quasi tutti, che non erano stati presenti e nemmeno ne avevano mai sentito parlare. Ma tu eri stanco e mi sei apparso malato anche quella sera. Come tuo solito, ti limitasti ad ascoltare e abbozzare il tuo sorriso triste. E buono. Lo conservo, oggi, come il tuo ultimo saluto.

Ciao, Demenecúcce. Ti abbraccio. Vorrei imparare a sorridere anch’io come te.
Giovanni





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