Un omicidio che ha fatto epoca a Toro e posto fine alle razzie di bestiame
Data: Wednesday, 13 September 2017 @ 19:29:53 Argomento: Cultura
Nel dopoguerra i ladri di bestiame imperversavano nelle nostre campagne. Ci si difendeva come si poteva, anche con il banditore che avvisava e sfidava i ladri per conto dei padroni delle bestie. A San Giovanni in Galdo, per fortuna. non ci furono strascichi drammatici, anzi i bandi pare sollecitassero solo le risate dei paesani. A Toro, invece, il bando di sfida era stato seguito da un omicidio, che aveva lasciato vasta eco in paese, atterrendo sia la popolazione sia i ladri, la cui téppa, vista la mala parata, preferì girare al largo dalle nostre stalle, almeno per molti anni.
Anni Cinquanta del Novecento, Ernesto Treccani, Contadino con mulo
Giovanni Mascia
Dalla farsa di San Giovanni alla tragedia di Toro
Ladri di bestiame in azione nelle campagne molisane nel dopoguerra
(Il Quotidiano del Molise, 12 settembre 2017)
Il recente libro di Marilena Marino, … Da Castelluccio a San Giovanni in Galdo (2017), ha per oggetto appunti e scritti lasciati dal padre Michele su aneddoti, leggende, fatti e personaggi di storia patria. Tra l’altro vi è trascritta una lettera aperta, indirizzata nel dicembre 1952 al sindaco Michele Daniele, per invitarlo a contrastare i ladri di bestiame che imperversavano a San Giovanni. Nonostante la gravità dell’argomento, lo scritto, di tono semiserio, per non dire comico, insisteva con dettagli di colore sugli amministratori comunali, prima di soffermarsi su un bando, che aveva divertito la popolazione, e motivato la lettera aperta.
Una volta precisato che “Ogni volta che si ode la tromba dell’Araldo, tutti si affacciano alle finestre e balconi per sentire le novità”, Michele Marino annotava: “L’Araldo del Comune, seguito da un codazzo scherzoso di giovincelli e dal relativo sghignazzo di monelli che andava sempre aumentando, proclamava tromba in bocca e fiato alle corde vocali, che… un certo Tizio aveva comperato delle pecore che aveva allocato in una certa masseria sita in una certa contrada e si avvisavano perciò i ladri, ove avessero bisogno di pecore, di andarle a rubare lì in quel certo e preciso posto”. Seguiva l'aggiunta: “Naturalmente lo stesso padrone delle pecore seguiva l’araldo perché nessun vicolo fosse tralasciato e la notizia fosse diffusa anche nelle più lontane case alla periferia dell’abitato”. Dopo di che, ridendo ridendo, considerato il proliferare dei ladri in paese, Marino aggiungeva paradosso a paradosso, per suggerire al Sindaco di rimpinguare le casse comunali, obbligando i ladri a richiedere la licenza o la patente per esercitare legalmente quel mestiere.
Insomma, la situazione sangiovannara, di cui ignoriamo gli sviluppi, poteva anche essere grave, ma era dipinta con pennellate tutt’altro che serie, farsesche addirittura.
Un esito tragico, al contrario, aveva avuto il bando, che era stato gridato nella limitrofa Toro, qualche tempo prima. Ne era derivato il fattaccio risalente alla fine degli Anni Quaranta, la cui eco era continuata a risuonare durante tutta la mia infanzia. Ricordo che quando ci attardavamo a giocare tra le prime case del paese e la campagna immersa nel buio, c’era sempre qualche bontempone che cercava di spaventarci, gridando Ièssu ièsse a Menecangele! Eccolo, ecco Menicangelo! (i nomi da qui in avanti sono di fantasia, per non urtare la suscettibilità di nessuno).
Riuscisse o no nell'intento di impaurirci con la Paura, cioè il fantasma, certo è che un Menicangelo Tabbellone era stato ammazzato proprio lì. Ed essendo morto di morte violenta, senza avere avuto il tempo di confessarsi e pentirsi dei suoi peccati, lo spettro era condannato in eterno a vagare su quel prato, senza trovarvi mai pace.
Da vivo, questo Menicangelo passava per attaccabrighe. La voce popolare lo diceva affiliato di una banda di ladri che operava a Toro e dintorni. Fatto sta che quando a Cola il Fuoriterra rubarono il mulo, tutti i paesani – non solo la vittima – sospettarono di Menicangelo e dei suoi compagni. Ma con i sospetti non si va molto lontano. Così alcuni giorni dopo il contadino comprò un secondo mulo. E per sua ulteriore disgrazia, maturò l’idea strampalata di far gridare il bando per il paese. Tutù… Tutù… si udì suonare la trombetta del banditore. E subito dopo: Cole u Foreterre avvise a ttutte ‘a pupelazione ca z’ha rraccattate u mule! Perciò se ze vunne j’ a rrebbà pure a quisse, che ze mevessjne ca isse è pronte… Cola il Fuoriterra avvisa tutta la popolazione che s’è ricomprato un altro mulo. Perciò se vogliono andare a rubarsi anche quest’altra bestia, che si muovano ché lui è pronto!
A quel bando di sfida, ci fu chi abbozzò un sorriso amaro e chi scosse la testa: quella storia aveva preso una brutta piega. A sera nel dopolavoro, Cola non riuscì a levarselo di torno, e Menicangelo insisteva a importunarlo: Se mi paghi da bere, ti dico chi ti ha rubato il mulo! E a sghignazzare: Io lo so dove sta il tuo mulo. Cola decise perciò che era meglio andare via. Ma l’altro lo seguì fino a casa, alla Croce Pozzillo. Anzi, fino alla stalla adiacente, perché prima di rientrare in casa, Cola era passato a governare la bestia da poco acquistata. E Menicangelo sempre a tormentarlo. Addirittura, il suo spirito maligno e beffardo lo spinse a forzare la mandibola del mulo e, apertala, a sputargli in bocca e a sottolineare il gesto con una risata sguaiata.
Il rituale era stato fin troppo chiaro: in quel modo l’uomo aveva sancito con l’animale un patto di familiarità, perché si credeva che sputando in bocca a un mulo (o a un asino o a un cavallo), lo si affamiliasse, rendendolo docile e affezionato. Il messaggio implicito era altrettanto chiaro: Per stasera mi sono limitato a sputare e a entrare in confidenza con l’animale, così quando tornerò a rubarlo, anche lui come il primo non farà storie e mi seguirà docilmente.
Quella spacconata fu la sua condanna a morte. U Foreterre non resse più. Afferrato un bidente, si avventò sul provocatore che tentò di darsi alla fuga, ma fuori dalla stalla, fatti pochi passi, fu raggiunto e finito a bidentate in testa. E proprio lì, sul limitare dell’abitato, tra il marciapiedi e l’erba della campagna, all’alba del giorno dopo, fu trovato cadavere da alcune donnicciole che si recavano al Pozzo a Monte ad attingere l’acqua.
Inutile aggiungere che quella tragedia atterrì il paese, dove qualche paesano, ritenuto a torto o a ragione affiliato alla téppa, si rinchiuse in casa per mesi, e dove non si verificarono più furti di bestiame, al contrario di San Giovanni dove, come abbiamo visto, sul finire del ‘52 se ne continuavano a registrare. Benché sgomenta, la popolazione manifestò tutta la sua simpatia per l’omicida, Cola il Fuoriterra, il quale al processo godette delle attenuanti che le deposizioni concordi strapparono ai giudici. Scontò una decina di anni di carcere e fu libero. Più o meno il tempo che noi ragazzi impiegammo per dimenticarci dei racconti della fine cruenta di Menicangelo Tabbellone, e del suo fantasma dannato, che oramai nessuno dei nostri fratelli più piccoli evocava a sera, durante i giochi sul campicello, all’ingresso del paese.
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Primo Novecento, Notabili di Toro a cavallo Sotto la Vecchia, località malfamata
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