Una pala d’altare del convento di Toro all’attenzione di Papa Francesco
Data: Monday, 22 November 2021 @ 23:29:43
Argomento: Arte, artisti e artigiani toresi


La tela del convento di Toro è tra le poche opere d'arte italiane, forse addirittura la sola, a ricordare la straordinaria canonizzazione dei Cinque Santi (Santa Teresa d'Avila, Sant'Ignazio di Loyola, Sant'Isidoro, San Francesco Saverio e San Filippo Neri) avvenuta a Roma il 12 marzo 1622. La segnaliamo nella ricorrenza del IV Centenario che si celebrerà nel marzo del prossimo anno, a beneficio particolare di papa Francesco, primo papa gesuita della storia. Suo il privilegio di onorare nell'occasione i primi e maggiori santi dell'ordine, Sant'Ignazio e San Francesco Saverio.


Autore Ignoto, La pietà, tra i santi Agostino e Giovanni Battista e, in basso, i Cinque Santi,
Olio su tela, 1630 circa, (320x212), Toro, Chiesa del Convento di Santa Maria di Loreto



Una pala d’altare del convento di Toro all’attenzione di Papa Francesco
Nel IV Centenario della Canonizzazione dei Cinque Santi
(Roma, 12 marzo 1622 – 2022)


Sono diversi i motivi per cui riteniamo che Papa Francesco possa essere interessato alla tela dei Cinque Santi, la seicentesca pala di altare, conservata a Toro, presso la chiesa del convento francescano di Santa Maria di Loreto. Tanto più in vista del prossimo 12 marzo, ricorrenza del IV Centenario della Canonizzazione degli stessi cinque santi effigiati nella metà inferiore della tela torese.

Giusto quattro secoli fa, infatti, i1 12 marzo 1622, per la prima volta la Chiesa provvide a proclamare cinque santi contemporaneamente, di cui quattro spagnoli, Teresa d’Avila, Isidoro l’Agricoltore, Ignazio di Loyola e Francesco Saverio. Quinto, il fiorentino ma romano d’adozione, Filippo Neri. Quattro spagnoli e un santo, se si vuole stare al celebre motto che la sagacia dei romani coniò nell’occasione. In realtà, si trattò di un avvenimento che fece epoca e sarà di certo degnamente rievocato fra qualche mese in occasione del prossimo centenario, che vedrà sul trono di San Pietro papa Francesco, il primo papa gesuita della storia, devoto e assai legato ai “maggiori sui” della Compagnia di Gesù: Ignazio e Francesco Saverio, fondatore il primo e grande evangelizzatore e patrono delle Missioni il secondo, entrambi canonizzati da Gregorio XV, che a sua volta è stato il primo papa ad avere studiato presso i gesuiti. La cerimonia di canonizzazione dei primi santi dell’ordine, e sicuramente i più famosi e venerati, rappresentò un grande trionfo della cattolicità, che i gesuiti rilanciarono con festeggiamenti solenni in tutte le dimore sparse in Europa, in Asia e nelle Americhe.



Gregorio XV – Medaglia commemorativa della canonizzazione dei Cinque Santi (1622)


Dell’avvenimento, tuttavia, non sono rimaste molte tracce artistiche, almeno in Italia. Di qui l’interesse per la tela dei Cinque Santi, che proprio per le peculiarità ricordate è stata segnalata sette anni fa, nella primavera del 2014, in occasione della festività di sant’Isidoro l’Agricoltore, patrono dei contadini e in questa veste non del tutto sconosciuto in Molise (cfr. Toroweb online,15 maggio 2014, Un santo dimenticato nel convento di Toro: Isidoro l’Agricoltore).

In quella circostanza, ci si accontentò di fornire qualche scarna informazione sulla imponente tela (circa cm. 320x212), conservata nel convento francescano di Toro, prezioso contenitore d’opere d’arte e di documenti storici, molti dei quali rimandano al cardinale Vincenzo Maria Orsini (1649-1730), arcivescovo di Benevento e abate di Santa Sofia, quindi padrone spirituale e feudale del paese, salito poi al soglio pontificio con il nome di Benedetto XIII (1724-1730). Sia permesso ora di aggiungere qualche ulteriore notizia alla descrizione sommaria del quadro di autore ignoto, posizionato a ridosso dell’altare maggiore, in cornu evangelii, lamentando, purtroppo e innanzitutto, il precario stato di conservazione dell’opera, che ad onta del restauro subito qualche decennio addietro, presenta diffuse lacune per le perdite di colore avvenute nel corso dei secoli. La descrizione è trascritta dall’inventario delle opere d’arte presenti nella chiesa del convento, compilato il 10 febbraio 1840 dal sindaco Domenico Trotta, che annotava le dimensioni del dipinto e le caratteristiche della metà superiore, prima di elencare i cinque santi raffigurati nella metà inferiore in uno con il ritratto del committente. Questa la nota del Trotta:
    Quadro a tela lungo palmi dodici, largo otto, in cui è dipinta l’immagine della Madonna della Pietà col figlio tra le braccia, a fianco S. Giovanni Battista, e S. Agostino, con serafini d’intorno e con vari stromenti della passione. Tutti veggonsi poggiati sopra nubi. Al di sotto vi sono dipinti S. Filippo Neri, S. Teresa, S. Ignazio Lojola, S. Francesco Saverio, e S. Isidoro. Sotto vi è il ritratto del quondam D. Antonio Antonacci fondatore della Cappella.


Antonio Antonacci, ritratto a mani giunte,
committente della tela e fondatore dell’altare dei Cinque Santi


Coerente con la canonizzazione è il riferimento a D. Antonio Antonacci. Del notaio Antonacci, l’Archivio di Stato di Campobasso conserva in sette buste i repertori che vanno dall’anno 1596 al 1633, benché attivo anche dopo tale data. Dal 1600 al 1602 fu procuratore della Confraternita di San Mercurio, della quale redasse nel 1607 la lista del confratelli, includendo se stesso tra i 137 maschi elencati a fronte di almeno altrettante donne. Tra l’altro, fu a capo dell’amministrazione comunale di Toro con il titolo di giudice (corrispondente al nostro sindaco, ma con carica annuale) nel 1629/1630 e nel 1639.

L’ipotesi che il committente effigiato ai piedi dei Cinque Santi possa essere proprio Antonio Antonacci, come annotato dal Trotta, è avvalorata dalla circostanza che indica nello stesso notaio Antonacci il fondatore della Cappella, a tenore dell’Inventario della Venerabile Cappella sotto i titolo di S. Maria della Misericordia, de cinque Santi, di Sant’Antonio di Padova, di S. Nicasio, S. Maria della Pietà, e del Santissimo Rosario erette dentro la Chiesa di S. Maria di Loreto de P.P. Minori Osservanti della Terra di Toro – 1713, inventario disposto dal Cardinale Orsini, redatto per l’appunto nel 1713, e conservato in volume con altri inventari coevi, presso l’archivio del Convento di San Giovanni dei Gelsi a Campobasso. Vi è annotato a proposito “Della Cappella seù Altare de Cinque Santi”:
    Stava la suddetta Cappella seù Altare eretta dentro la Chiesa sotto il titolo di S. Maria dello Reto dalla parte del Corno dell’Epistola, fù d’ordine dell’Ecc.mo sig. Cardinale Orsini Arcivescovo demolito nella p[ri]ma S. Visita, e trasferito il peso all’Altare Maggiore.
    Fu questo Altare fondato e dotato dal q[uonda]m Antonio Antonaccio, ed essendo morto d[etto]. q.m Notar Antonio ab intestato il Dr. Fisico Agostino Mascillo genero di d. N. Antonio cedé tutta l’eredità a d. Altare per i dispareri e discordie, che vertevano fra i parenti a pretendere detta eredità…
Stando così le cose, si capisce perché oggi la pala, esposta nel presbiterio, si veda priva dell’altare di riferimento e perché la sua datazione possa essere ricondotta alla prima metà del Seicento, con ogni probabilità a distanza di tempo non eccessiva dalla canonizzazione multipla. A suffragare questa ipotesi, l’esigenza avvertita dall’ignoto artista di annotare il nome latino ai piedi di ognuno dei cinque santi, la cui iconografia era ancora sconosciuta alla massa dei fedeli essendo stati da poco canonizzati. Nell’ordine, da sinistra: S. Teresia, S. Ignatius, S. Isidorus, S. Franciscus Xaverius e S. Philippus Nerius. E che non può essere andata altrimenti lo prova anche il fatto che la casata degli Antonacci venne ad estinguersi in paese con la morte del notaio, avvenuta il 23 novembre del 1640, senza peraltro impedire al cognome di sopravvivere nel toponimo “Piana Antonacci” (in dialetto contratto in Chiantenacce), con il quale ancora oggi è designata la popolare contrada posta al di là del Tappino, che un tempo accoglieva i poderi di famiglia.



Stampa e medaglie devozionali a ricordo della canonizzazione dei Cinque Santi



Eccoci dunque ai Cinque Santi canonizzati nel 1622, effigiati in piedi, in posizione pressoché frontale, allineati secondo lo schema fisso accolto in stampe e in molte medaglie devozionali coniate a ricordo dell’avvenimento, schema che nella tela di Toro si struttura in una formazione a cuneo, con Sant’Isidoro l’Agricoltore o Isidoro Agricola (1080 circa 1130 circa), laico, Patrono di Madrid, al centro, in primo piano. Il santo con il nimbo, i capelli e la barba neri e fluenti a incorniciare il viso giovanile, le brache al ginocchio ricoperte da una vesticciola rossa, legata alla cinta con un fascia bianca, e i gambali di cuoio, è intento a percuotere il terreno con un lungo bastone la cui terminazione metallica fa scaturire uno zampillo d’acqua.


Toro, Convento di Santa Maria di Loreto, I Cinque Santi (dettaglio)


Va ricordato che a Sant’Isidoro era dedicato un altare della Chiesa di San Leonardo nella vicina Campobasso, dove gli è tuttora dedicato il primo “mistero”, ossia il quadro vivente che apre la plurisecolare sfilata del Corpus Domini, altrimenti detto il mistero della Face, per via di una grossa fiaccola che lo caratterizza. Come nel quadro di Toro, il santo contadino batte con il bastone il terreno perché ne zampilli l’acqua, in questo caso più precisamente per placare la sete (fisica e spirituale) del suo padrone il cavaliere spagnolo Giovanni de Vergas, presente anch’egli nella rappresentazione popolare.

Sant’Isidore figlie de la Spagna
prutiegge le cafune e la campagna,
batte la terra mè che ssu bastone
arijgneme la votte e lu cascione.
    (Sant’Isidoro figlio della Spagna / proteggi i contadini e la campagna, / dissoda la terra mia con quel bastone / riempimi la botte e il cassone).

Così è invocato il santo in un poemetto di Michele Buldrini dedicato ai “Misteri” campobassani.



Campobasso, Il Mistero di Sant’Isidoro. Disegno di Pasquale Mattei 1856


Viceversa a Toro, a parte il quadro del Convento, non rimane nessuna traccia, ammesso che ce ne sia mai stata una, di un culto popolare per il santo, benché tra le sue gambe divaricate si intravveda un lembo di paesaggio caratterizzato da un villaggio situato in una vallata e sormontato da un abitato arroccato su un’altura.



Toro, Convento di Santa Maria di Loreto (Dettaglio)


Il degrado della tela non permette una precisa valutazione del dettaglio, che nel villaggio a monte potrebbe presentare un’antica raffigurazione dell’abitato di Toro. Dove, tuttavia, neppure il nome del santo ha goduto di maggior fortuna essendo stato registrato sporadicamente lungo l’arco dei secoli (Cutrone, Marcucci, Simonelli...), e ancora più sporadicamente, per esempio nella famiglia Quicquaro, si è rinnovato nei discendenti, in omaggio alla figura del sacerdote Isidoro Quicquaro scomparso a 71 anni nel 1797.

Immediatamente a ridosso di Sant’Isidoro, alle sue spalle, sono ritratti i due santi gesuiti: Ignazio di Loyola (1491-1556), sacerdote e fondatore della Compagnia di Gesù, da un lato, e Francesco Saverio (1506-1552), sacerdote e missionario, dall’altro. Rivestiti entrambi della tunica nera dell’ordine, sono contraddistinti dall’aureola e dalla barba nera che rende austeri i visi di mezza età.





Sant’Ignazio, effigiato con la classica, pronunciata calvizie, mostra il volume normativo della Compagnia aperto sulla pagina su cui è impresso il motto Ad Maiorem Dei Gloriam, mentre della probabile scritta della pagina a fronte Regula Societatis Iesu è possibile decifrare solo “Regula”. A Toro non si conservano altre immagini né tracce di culto a lui tributato. Pressoché sconosciuto anche il nome, a parte rarissimi casi tra cui un p. Ignazio da Toro (al secolo Giovannangelo Ferrara, 1817-1897), frate minore e rettore del Convento di Santa Maria di Loreto a Toro, il quale negli anni bui della soppressione degli ordini mendicanti decretata all’indomani dell’Unità d’Italia fu chiamato prima alla carica di custode provinciale (1874-1884) e quindi di ministro della Provincia Monastica di San Ferdinando del Molise (1884-1891).





Viceversa, il ritratto di San Francesco Saverio, più giovane rispetto al confratello, con uno stelo di giglio bianco nella mano destra, bene si addice all’immagine di un santo popolare in paese, dove specialmente a cavallo tra Sette e Ottocento sono stati numerosi i toresi, maschi e femmine, battezzati in suo onore con i nomi di Saverio (popolarmente Viuccio) e Saveria o anche Saverina o Severina. Non a caso, nel 1876, la famiglia Cardillo eresse un altare laterale della Chiesa Madre del Santissimo Salvatore, in cornu evangelii, ai piedi della nicchia che accoglie una bella statua lignea, forse riconducibile allo scultore Silverio Giovannitti da Oratino. Rivestito di tunica, cotta e stola, il santo gesuita è rappresentato nell’atto di predicare, mostrando ai fedeli il crocifisso impugnato con la sinistra. Nel 1923, estinti i Cardillo, l’erede Francesco D’Amico, fece murare al di sopra della nicchia la targa marmorea che ricordava e raccomandava a sé e a i suoi familiari la devozione degli avi.





Alle spalle di San Francesco Saverio, è raffigurato San Filippo Neri (1515-1595), fondatore della Congregazione dell’Oratorio, con la barba e i capelli bianchi, gli occhi rivolti al cielo e il libro nella mano destra. L’anziano sacerdote è rivestito dei paramenti liturgici, in questo caso verdi, non rossi come nella celebre Visione di Guido Reni, né tantomeno d’oro, come di solito rappresentati. A Toro e in tutte le parrocchie molisane e campane dell’arcidiocesi beneventana retta dal citato Cardinale Orsini, San Filippo divenne assai noto e venerato per impulso del cardinale che, ritenendo di essere uscito illeso per intercessione del santo dal crollo dell’episcopio beneventano causato dal terremoto del 1688, ne promosse il culto, raccomandando che ogni parrocchia custodisse almeno un ritratto del santo da esporre alla devozione dei fedeli. Nel circondario sono ben conosciuti il quadro realizzato da Giuseppe Castellano nel 1705 presso la chiesa di Faifoli a Montagano, con San Filippo raffigurato insieme a San Domenico e altri santi ai piedi della Vergine nonché la tela del Rosario di Nicola Boraglia, conservata nella chiesa di San Bonaventura a Campodipietra, dove un ritratto ovale del santo è esposto anche nella Chiesa Madre dedicata a San Martino. A San Giovanni in Galdo, un’altra tela del Castellano mostra San Filippo insieme a San Sebastiano ai piedi de La Madonna del Carmine, presso la chiesa conventuale omonima, mentre in un affresco del soffitto di una sala del Palazzo Abbaziale il santo è ritratto in paramenti viola. A Toro, infine, oltre che nella pala dei Cinque Santi, è raffigurato nella Madonna del Rosario del Boraglia, la bella tela commissionata dallo stesso Orsini nel 1721 a beneficio dell’altare omonimo eretto nella stessa chiesa del Convento, e quindi nella Madonna del Rosario di Giuseppe Castellano, nella chiesa parrocchiale del San Salvatore. Con tutto ciò il nome del santo ha goduto in passato di una diffusione discreta, non di più, e appare a mal partito contro le abitudini onomastiche delle nuove generazioni.






Tornando alla tela dei Cinque Santi, e precisamente alle spalle di Sant’Ignazio, e quindi dall’altra parte della tela, a sinistra di chi guarda, troviamo raffigurata l’unica donna della schiera dei canonizzati del 12 marzo 1622: Santa Teresa d’Avila, o di Gesù (1515-1582), mistica, suora carmelitana, scrittrice e fondatrice delle monache e dei frati Carmelitani Scalzi, che sarà annoverata, prima donna della cristianità, tra i dottori della Chiesa nel 1970 da Paolo VI, insieme a Caterina da Siena. Santa Teresa – della quale non si conoscono altre effigi in paese né riferimenti devozionali specifici, sebbene il suo nome sia stato e resti popolare e diffuso tra la popolazione – appare piuttosto giovane, naturalmente a piedi scalzi, rivestita di tunica marrone, copritunica bianca, soggolo bianco e velo nero. Nella mano destra regge un crocifisso ligneo.

Ma c’è un aspetto della tela non molto evidente, che va rilevato e sottolineato ed è l’angelo che dall’alto delle nubi indirizza una freccia verso Santa Teresa, oltrepassandone l’aureola. Il dettaglio allude al celebre caso di transverberazione vissuto e raccontato nella autobiografia della santa, il cui cuore sarebbe stato trafitto durante un’estasi da un angelo con una freccia infuocata, come rappresentato nella celebre scultura del Bernini, in linea con l’autopsia che accertò nel suo cuore la presenza della cicatrice di una ferita grande e profonda. In ogni caso è forte la suggestione della festa della transverberazione di Santa Teresa di Gesù che si celebra il 26 agosto, nella stessa data in cui a Toro si festeggia solennemente il patrono veneratissimo, San Mercurio Martire.

***

Il dettaglio della freccia dall’angelo funge anche da fondamentale grado di raccordo tra la scena terrena dei cinque santi consacrati nel marzo di quattro secoli fa e la visione celeste raffigurata, oltre la cortina di nuvole, nella parte superiore della tela. Fulcro della scena ultraterrena, in un nugolo di cherubini e angeli dotati degli strumenti della Passione, è la Madonna abbracciata al corpo del figlio morto, che fuoriesce dal sarcofago di marmo dalla cintola in su, per usare un’espressione famosa; alle loro spalle incombe la croce, mentre i lati sono presidiati da un santo vescovo a sinistra e, con il cartiglio che in qualche modo rimanda all’Agnus Dei, dal Battista a destra. San Giovanni, che a Toro è molto popolare, anche nell’onomastica cittadina, è presente anche nella settecentesca pala dell’altare posizionato accanto a quella dei Cinque Santi, con Santa Lucia e la Vergine che intercede presso Cristo, opera di Ciriaco Brunetti da Oratino, probabilmente da mettere in relazione con la tremenda carestia del 1764. Inoltre, nella chiesa parrocchiale, una statua di Crescenzo Ranallo, firmata e datata 1850, è posta a capo dell’altare dedicato a San Giovanni, in cornu epistolae. Al contrario, scarso favore onomastico e nessun culto riscuote Sant’Agostino vescovo, raffigurato alla sinistra della Pietà. La sua identità, in uno con quella del Battista, qualora fosse stata necessaria, è svelata dai precisi riferimenti della iscrizione, leggibile solo in parte sul frontespizio del sepolcro, che per quanto riguarda la Pietà rimanda a una immagine miracolosa rivenuta a Napoli proprio in quegli anni: “Vero Ritratto di Santa Maria della Consolatione / pa [...] della Chiesa di [... San Giovanni?...] a Carbon / dell’ordine di Santo Agostino”.



Toro, Convento di Santa Maria di Loreto, dettaglio della Pietà. parte superiore della Pala dei Cinque Santi


Di che si tratta? Nel 1620, quindi appena due anni prima della canonizzazione dei Cinque Santi, i Padri Agostiniani avevano fondato e intitolato a Santa Maria della Consolazione la chiesa ricavata nella cripta della chiesa del monastero di San Giovanni a Carbonara, per accoglievi un’immagine della Vergine che era stata ritrovata sotto uno strato d’intonaco nella bottega di un falegname e da lì trasferita nella nuova chiesa per ordine del Cardinale Decio Carafa, arcivescovo di Napoli. Dovette anche in quel caso trattarsi di un avvenimento di grande risonanza se comportò la costruzione di una nuova chiesa, alla cui degna sistemazione concorreranno in seguito anche un architetto noto, Ferdinando Sanfelice, e il celeberrimo Giuseppe Sammartino, l’autore del Cristo velato, che realizzò l’altare maggiore e la balaustra.

Vero è che già nella seconda metà dell’Ottocento cronisti e storici napoletani segnalavano che l’antica immagine della Consolazione era andata perduta, ma restava una copia in marmo a rilievo, presso la porta interna della chiesa, e un’altra nella Chiesa superiore di San Giovanni a Carbonara. I cronisti e gli storici napoletani lo ignoravano, ma di quell’antica immagine perduta, sappiamo oggi che resta anche La Madonna della Consolazione di Toro, realizzata da un artista ignoto ma comunque dal talento non disprezzabile, in anni non troppo lontani dal ritrovamento napoletano e dalla canonizzazione a San Pietro dei Cinque Santi, effigiati nella stessa tela, su commissione del notaio Antonio Antonacci, anch’egli convenientemente raffigurato. Ne discende che, al contrario di quanto spesso si crede e si vorrebbe far credere, in quei tempi lontani anche le piccole, insignificanti realtà rurali e periferiche erano inserite a modo loro in circuiti culturali, artistici e socio-religiosi, non costrette inesorabilmente ai margini o estromesse addirittura da ciò che avveniva nel mondo, in questo caso rappresentato sia dalla capitale del regno sia dalla capitale della cristianità.

Così oggi, a quattro secoli di distanza, nel piccolo paese di Toro, alle porte di Campobasso, in questi anni non proprio felici, soprattutto in riferimento ai versanti occupazionali, lavorativi e purtroppo sanitari, una comunità che è fiera delle proprie radici e della tradizione storica, artistica, culturale e religiosa, lancia questo modesto segnale di esistenza in vita, comunicando in primis e ante omnia a papa Francesco e, quindi, a tutti quelli che possano essere interessati e compartecipi, dell’esistenza della tela seicentesca dei Cinque Santi in un contesto, quale quello del pur cospicuo patrimonio artistico nazionale, che in questo caso non pare aver conservato altri esempi di pari oggetto.





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