Giovanni Mascia rivela gli affreschi per il papa Benedetto XIII
Data: Monday, 07 April 2008 @ 17:01:41
Argomento: Cultura


Presentiamo l'ottima e pungente recensione che Franco Valente ha dedicato al volume di Giovanni Mascia. Lo scritto è stato pubblicato sul suo interessantissimo sito www.francovalente.it già domenica mattina 6 aprile 2008.

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Nella piacevolmente fresca serata del 5 aprile 2008, durante la presentazione dello splendido volume di Giovanni Mascia (Edizioni Palladino) io avrei ricordato che quel giorno la Chiesa celebrava S. Vincenzo Ferreri, il novello Angelo dell’Apocalisse. La circostanza, sebbene sicuramente casuale, per chi come me vive con i pensieri tra i Santi e con il fisico tra i peccatori, forse poteva essere utile per costringere i presenti a rendersi conto che quello che Giovanni Mascia ha racchiuso in un volume, peraltro editorialmente pregevole, rappresenta una significativa esposizione dell’anticamera drammatica dell’apocalittica Gerusalemme Celeste.
Non conoscevo le pitture del chiostro del Convento dei Francescani Minori dedicato alla Madonna di Loreto ed ora, come prima reazione per lo stato di degrado, posso associarmi al grido di allarme presso il Ministero per i Beni Culturali che, pur essendo privo di anima, ha le disponibilità economiche per procedere ad un improcrastinabile restauro. Almeno di quello che è restaurabile.
La presenza trentina del nuovo vescovo di Campobasso Giancarlo Maria Bregantini, mentre i numerosi relatori davano merito all’opera di Mascia e reciprocamente si scambiavano doverosi ringraziamenti, mi ha fatto riflettere sui caratteri controriformisti della chiesa che ci ospitava, a cominciare dal bellissimo altare marmoreo dove la necessità di aggiungere (forse ad opera già finita) gli archi di separazione dal coro costituisce una originalissima peculiarità architettonica.
Il ciclo di pitture di Toro, infatti, come ha sottolineato l’Autore, assolve quella necessità post-tridentina di assegnare all’arte e all’architettura una funzione dottrinaria, ma, aggiungerei, anche fisicamente consistente: “Fides sine operibus mortua est in semetipsa” (Giacomo il Minore).
Certamente il forte radicamento di Papa Benedetto XIII, della potente famiglia Orsini di Benevento, che anche dopo l’ascesa al soglio pontificio continuò a tenere la diocesi sannita di cui Toro era parte, non sfuggì ai francescani di quel convento molisano che immaginarono una visita papale che nei fatti non si concretizzò. Di Giovanni Mascia è fin troppo nota la sua acribia. In questo caso, aiutato nell’analisi iconografica da Dante Gentile Lorusso, ha superato se stesso in una ricerca meticolosa che oggi contribuisce a far conoscere il contesto generale, il clima culturale, la situazione sociale e i singoli tasselli di questo misterioso mosaico pittorico.
Ma l’aspetto sicuramente più intrigante del volume è che, attraverso l’analisi di ogni più piccolo particolare linguistico e letterario, egli ha svelato, con un processo logico e sotto certi aspetti poliziesco, il nome dell’autore dell’originale ciclo di pitture.
Mascia ha avuto l’abilità di mettere insieme una serie di riscontri documentari solo dopo aver ragionato su una circostanza sicuramente strana: tutti i singoli racconti murali, escluso uno, furono realizzati con la contribuzione economica di famiglie benestanti di Toro.
L’ultimo dei diciannove quadri, invece, risulta sponsorizzato da uno sconosciuto Bartolomeo Mastropietro, che nel Catasto Onciario dei primi decenni del XVIII secolo, risultava essere un nullatenente.
Un personaggio che, però, sembra aver voluto lasciare tracce molto discrete, quasi insignificanti, in altri luoghi e che hanno consentito di dare al ciclo del Chiostro di Toro una sicura paternità.
Bartolomeo Mastropietro, nato a Cercemaggiore alla fine del XVII secolo e trasferitosi a Toro dopo aver peregrinato come artista tuttofare nei vari conventi francescani del territorio molisano, certamente era rimasto affascinato dalle opere che Benedetto Brunetti aveva realizzato nel Molise dopo essere partito dalla Terra di Lavoro con un bagaglio professionale accumulato frequentando gli ambienti più affermati della cultura artistica napoletana. Non sappiamo se Bartolomeo in gioventù sia stato un suo diretto collaboratore, ma molti particolari lo inducono a ritenere.
Oggi, grazie all’intuizione di Giovanni Mascia, siamo in grado di aprire un’altra finestra sul Settecento molisano ancora nascosto sotto il velo dell’indifferenza delle pubbliche amministrazioni che una diffusa imbecillità culturale regionale aiuta a stendere.
(Franco Valente)





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