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Un delitto perfetto (Toro che non c'è più)
A sentir raccontare gli anziani, una volta a Toro c'era la miseria, anzi c'era la fame. Eppure c'era un rispetto straordinario. Dei giovani verso i vecchi. Dei figli verso i genitori. Delle mogli verso i mariti. Che si consideravano ed erano considerati dei veri e propri padroni. Per non parlare dei numerosi preti che inculcavano i sacri valori, dall'alto del pulpito di una vita irreprensibile... O quasi.




Fatto sta che ne succedevano di cotte e di crude anche allora. Come quella dell'uomo che restò a dormire nel pagliaio, per essere pronto a mietere all'alba, con il fresco, risparmiandosi qualche ora di sonno e la fatica mattutina del viaggio dal paese.

Viaggio che invece toccò alla moglie. Avviatasi di buon mattino per portare la colazione al marito, si imbatté in più di un conoscente che, con faccia contrita, la invitava a tornarsene a casa.
- E come faccio? - rispondeva la donna - mio marito mi aspetta. Avrà fame!
E continuava ad andare, finché una comare, non la prese sottobraccio e la riportò il paese, raccontandogli della tragedia, avvenuta nella notte, del marito arso vivo nel pagliaio.

Le urla della poveretta svegliarono tutto il paese. La sua casa fu un vai e vieni di parenti, comari e compari e amici che piangevano la terribile disgrazia e compiangevano la moglie e i figli piccoli del contadino carbonizzato, del quale tutti vantavano il cuore buono e nessuno sapeva indicare un nemico. I carabinieri, dopo essere stati sul posto, sui resti fumanti del rogo, archiviarono il fascicolo, ipotizzando una disgrazia, causata dal maledetto vizio del fumo. Nel dormiveglia, spiegavano, l'uomo s'era lasciato sfuggire di bocca la pipa. La brace aveva appicato il fuoco al pagliericcio e al pagliaio.

I primi anni di vedovanza furono duri, poi i figli crebbero, aiutarono la madre a portare avanti la casa e la campagna. Infine, come Dio volle, si sposarono. La vedova invecchiò e quando si rese conto che l'ora era giunta mandò a chiamare il prete per confessarsi e prepararsi a chiudere gli occhi per sempre. Da parte sua, don Liberatore qualche disappunto lo manifestò a sentirsi recalamare al capezzale della moribonda. Pure, licenziandosi momentaneamente dagli amici, si avviò con passo spedito dove il sacro ministero lo chiamava.

Fu ripagato ad abbundantiam dall'attaccamento al dovere sacerdotale. Non si trattò affatto di una confessione qualsiasi di una qualunque vecchietta sul punto di morte. Don Liberatore apprese i particolari di una vicenda accaduta quando lui non era ancora nato. In preda a una insana euforia, impartì l'assoluzione e l'estrama unzione, e se ne tornò alla combriccola che aveva lasciato al tavolo della cantina in piazza. Non si sa se ebbe o no degli scrupoli, certo non li manifestò. Disattendendo al precetto del buon confessore, per di più pregato dalla moribonda di non divulgare il segreto prima della morte sopraggiunta, vuotò il sacco e più di un bicchiere di vino.

Alcuni giorni dopo, quando la vedova fu portata prima in chiesa e poi in camposanto, furono recitate pochissime requiemmaterne. I compaesani preferirono ripetersi l'un l'altro i particolari della confessione. Cioè di come la defunta, esasperata dalle piccole e grandi angherie costrette a subire dal marito, si era portata quasi mezzo secolo prima, nottetempo e furtivamente, in campagna a dare fuoco al pagliaio dove l'uovo dormiva. Di come se n'era quindi tornata a letto in paese, evitando la via della costa, per non correre il richio di qualche incontro inatteso. Di come alle prime luci dell'alba aveva picchiato alla porta di zia Rosa, la fornara, per un po' di vampa per accendere il fuoco e preparare la colazione, sistemarla nella minella, issarsela sulla testa e ritornare verso il luogo del delitto. E della sua liberazione.

Nota: Si prega di citare la fonte in caso di utilizzazione del testo. Questo articolo è protetto da diritti Creative Commons
Postato il Domenica, 20 giugno 2010 @ 00:00:00 di giovanni_mascia
 
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